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sabato 31 marzo 2018

Grazie, Peppino


  
(Discorso di Peppino, Radio Aut, Onda Pazza)



Cinisi, trenta chilometri da Palermo.


Casa Impastato, a cento passi  dalla casa del boss Badalamenti. Sono pochi metri.


Il 9 maggio del 1978 c'è silenzio e la notte è buia come sempre. Solo un po' di più.


Peppino Impastato viene colpito alla testa con un masso, viene legato alla ferrovia che collega Trapani a Palermo, nelle rotaie che dividono il comune di Cinisi da quello di Terrasini, dove aveva sede la radio che aveva fondato con altri amici coraggiosi, Radio Aut.


"Peppino si è suicidato".


Punto.


Anzi no, Peppino era un terrorista, imbranato peraltro, e voleva far saltare per aria un treno ma era finito per saltare in aria lui.


Imbranato, appunto.




Sì, Peppino probabilmente sapeva che quella sarebbe stata la sua fine, ma la paura di morire non era più forte della paura che tutto intorno a lui morisse. Devi scegliere, cosa ti fa più paura? Il coraggio è quasi una contraddizione, diceva Chesterton, esso significa un forte desiderio di vivere che prende la forma di una disponibilità a morire. Per questo non stava zitto, per non morire dentro, perché credeva che marcire fosse più doloroso che morire.


Peppino è stato ucciso perché oltre a sapere che soli cento passi lo dividevano dal marciume, lo aveva pure detto ad alta voce.


Peppino era siciliano ed era figlio di un mafioso.


Peppino era giovane e non era potente.


Peppino non era neanche un giudice, non aveva titoli, non era neanche ricco.


Peppino indossava i jeans e suonava una chitarra a corde. Scriveva poesie delicate e di giorno riversava il suo sarcasmo contro i mafiosi dagli altoparlanti della radio.


La mafia aveva paura di un ragazzo che di loro sembrava non aver paura.


Li derideva e li ridicolizzava, dava loro nomignoli imbarazzanti, li rimpiccioliva come molliche senza usare le mani.


Forse Badalamenti aveva capito quello che Peppino stava svegliando, una coscienza collettiva che era in grado di annientare l'efficacia di certi dispositivi mafiosi. Qualcosa che andava oltre l'applicazione della legge e riguardava più una resistenza spontanea e pazza.


Un'Onda Pazza.


Una decisa e incalzante lotta di coscienze, una fiamma di consapevolezza che divampava.


La mafia è sciocca.


Uccide gli uomini ma non ha alcun arma contro le idee. Ad un uomo puoi anche sparare e puoi anche fargli male e ucciderlo. Ma non puoi sparare ad un'idea. Non quando quell'idea non appartiene più ad un solo uomo, ma a cento, mille, un milione!




Peppino è stato ucciso.




Oltre ai cento passi che lo dividevano dalla banalità del male, quando la notte era così buia da togliere il fiato, che se non fosse morto avrebbe comunque creduto di esserlo. Quando non era semplice dire che la mafia esisteva e che uccideva.




Oggi, ogni 9 Maggio, una lunga coda di giovani e di adulti attraversa i binari in cui fu ucciso Peppino. Bandiere colorate, cori, canzoni, allegria, fili di commozione  e di slogan, non si tratta più di contare i passi che ci dividono, ma di percorrere insieme nuove strade  che qualcuno di molto coraggioso ci ha donato.


Si deve avere il coraggio di attraversare e travolgere quelle dell'indifferenza e del silenzio, pur senza urlare, basta che la coscienza parli.




Il corteo arriva davanti la casa di Peppino. la sua stanza è ancora lì, così come l'aveva lasciata lui prima di morire. I suoi libri, i suoi fogli sparpagliati, la chitarra, le sue foto. Ti chiedi così sia quella strana sensazione di averlo lì, tra tutti quei visi sconosciuti e accaldati, ti chiedi in quale sorriso sia finito. Dal balcone di pietra si vede perfettamente quello di casa Badalamenti.


Cemento.


A volte è un passo, a volte sono venti, più di cento, non puoi mai saperlo veramente. Ma devi comunque camminare.




Grazie Peppino.
 




Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato può essere visitata anche in giornate diverse dal 9 maggio. Per informazioni e curiosità potete consultare il sito http://www.casamemoria.it/

venerdì 30 marzo 2018

Il Viandante sul Mar



(Sant'Alessio Siculo e la Calabria, Maggio 2017)


Sant'Alessio Siculo. 
Era maggio dell'anno scorso e vivevo lì da pochissime settimane. L'estate in quelle zone iniziò presto, il caldo era così invadente da spingermi a mare ogni giorno, anche solo per un'ora. È un piccolissimo paese sulla costa ionica in cui l'acqua del mare sembra possedere una dimensione extra spaziale ed extratemporale, lontana dai colori che conosciamo e riusciamo a identificare. Mi è piaciuta sin da subito perché ogni giorno potevi percorrerla interamente a piedi, senza usare alcun mezzo. 
I primi giorni di Maggio la spiaggia era semi deserta e nessun impianto balneare occupava la battigia. Era però in funzione un piccolo chioschetto costruito su una sorta di palafitta verniciata di bianco, La Perla Nera. Spesso, mentre mi accingevo a scrivere al PC, seduta ad uno dei tavoli, sgranocchiavo secchielli di patatine e mi isolavo, se possibile, anche da quell'angolo di paradiso.
Il mare sembrava una tovaglia di seta blu.
Sì, i ciottoli  al posto della sabbia erano scomodi, ma dopo qualche giorno avevo trovato un sistema infallibile per sdraiarmi su di essi senza provare fastidiose fitte di dolore alla schiena, é sempre questione di metodo e di abitudine. Il nostro corpo e la nostra mente sono più duttili di quello che pensiamo, alla fine di tutto. 
Decidevo di sdraiarmi in direzione del sole per catturare meglio i suoi raggi e ottenere un abbronzatura impeccabile prima ancora che l'estate fosse ufficializzata. Era tutto così silenzioso e armonioso. Qualche brusio, una nota zoppa da lontano, eppure quello che avvertivo non era altro che il rumore del vento e delle onde. Il frusciare delle pagine.
 Ogni tanto oziavo in compagnia di un libro che leggevo ad alta voce, perché durante il giorno ero spesso sola e non sentire la mia voce per tutto quel tempo mi faceva soffrire. Sono logorroica, ma in quel paesino ho imparato anche ad assaporare il silenzio.
La mattina presto, dal balcone, riuscivo a scorgere perfettamente le curve della Calabria, la sua costa irregolare e le imbarcazioni  sullo stretto. Era un appuntamento piacevole, io e il vecchietto con il cane.
Tutte le mattine, alle 7.30, lo trovavo di spalle con le braccia incrociate sopra il parapetto del lungomare, lo sguardo fisso verso il mare, e il cane sonnecchiante appollaiato al suo fianco. Mi infondeva una certa forma di  rassicurazione trovarlo lì ogni mattina, anche se in quel lembo di Sicilia tutto sembrava rassicurante e piacevolmente lento. Ogni tanto lo trovavo nella stessa posizione anche la sera. Verso il tramonto. Mi chiedevo come mai fissasse con quella insistenza il mare, ma non ci parlai mai. Lo incrociai diverse volte alla pescheria del corso, anche senza il suo fedele cane, ma non sentii mai la sua voce. Mi sorrideva. 
Avevo un'idea tutta mia di quell'uomo e temevo che sentire la sua voce l'avrebbe distrutta. Lo immaginavo come un eroe solitario, un pescatore pieno di malinconia che, però, aveva sperimentato tanta felicità e, per qualche strana ragione, adesso era tormentato da qualcosa di molto triste. Delle volte quest'idea era così convincente che il solo pensiero mi intristiva. 
Ho sempre avuto una fervida immaginazione.
Una mattina, mentre stendevo i panni ai fili del balcone, mi accorsi che stava ancora lì, nonostante le 7.30 fossero passate da un pezzo. Quel giorno il tempo non era stato misericordioso e ci aveva ricordato che sì, eravamo in Sicilia, ma non era ancora estate. Era una di quelle giornate uggiose che tanto detesto, la nebbia era così fitta da coprire il mare e le falesie circostanti. Eppure lui era nella stessa postazione di sempre e probabilmente fissava un punto indefinito davanti a sé. In quel momento mi sembrò il protagonista de " Il Viandante sul Mar di Nebbia", una delle massime espressioni del romanticismo tedesco. Quell'uomo era così solitario e assorto, si stagliava contro il paesaggio di fronte. Non potevo vedere il suo sguardo ma potevo immaginare dove fosse rivolto. Contemplava le cose davanti a sé muovendosi appena, come se fosse scosso, ogni tanto, da uno spasmo di inquietudine o di meraviglia. Non aveva di certo il portamento teso e fiero del Viandante originale, ma mi sembrò addirittura più poetico. Un po' ricurvo, le gambe messe a caso, ma la testa sollevata con fermezza. 
Da allora mi sono sempre domandata se si fosse mai accorto della mia presenza durante tutte quelle mattine e sono giunta alla conclusione che sì, ne fosse cosciente, e non si voltasse per non mettermi in imbarazzo e farmi sentire una stalker.
Quando Ciccio rientrava dal lavoro e mi chiedeva così avessi fatto raccontavo di quell'appuntamento mattutino con una certa punta di entusiasmo. Non so spiegare neanche il perché trovassi interessante quel momento, probabilmente era un normale intramezzo tra le mie vecchie abitudini e quelle nuove, probabilmente perché era una compagnia silenziosa  e costante, oppure perché mi permetteva di fantasticare sulla sua vita senza interrompermi. Forse perché ci soffermiamo spesso a guardare le persone negli occhi ma tralasciamo di guardare dove vanno i loro occhi. Verso dove. Ma soprattutto con chi.
Quando ci siamo trasferiti nella casa nuova sul corso principale, a fine mese, dal balcone non riuscivo più a scorgere il mare e quella piccola abitudine che avevo costruito nei giorni precedenti fu una delle cose di cui avvertii la mancanza. Chissà che fine fanno gli sconosciuti che senza saperlo ci tengono compagnia, chissà se anche noi, qualche volta, siamo stati una compagnia inconsapevole per qualcuno, se abbiamo fatto parte di spezzoni della loro vita, se gli abbiamo permesso di fantasticare sulle nostre vite, su chi siamo. Chissà se ci hanno azzeccato.


(Il Viandante sul Mare di Sant'Alessio Siculo, Maggio 2017)

(Lungomare di Sant'Alessio Siculo, Giugno 2017)


(Sant'Alessio Siculo, Giugno 2017)
(Sant'Alessio Siculo al chiaro di luna, Maggio 2017)


(Il mare di Sant'Alessio Siculo, Maggio 2017)

sabato 17 marzo 2018

La campagna di domenica

(Il Castelluccio, Gela. immagine presa dal sito www.typicalsicily.it)

Prima si andava in campagna ogni domenica. Me le ricordo bene le "arrustute" autunnali all'aria aperta, tra un'altalena sbilenca, un morso al pane caldo, le "cacoccile" fumanti e tante risate. Si mangiava come se fosse l'ultimo pasto prima di una grande carestia di cibo, ci si sporcava non appena scesi dalla macchina e la sera le scarpe erano piene di terra, spine e roba di ogni tipo. Ci si divertiva con poco.

"Mamma, sbuccia l'arancia, come si fa?"



Un odore inconfondibile, quello della campagna la domenica.



Le infinite distese di grano, il manto di un leone che ozia. Il fumo della carne addosso, lo sfrigolìo della brace, i più grandi che ridono a voce alta, si prendono in giro, mentre noi piccoli tentiamo di romperci le ossa in qualche gioco strampalato. Non eravamo alti neanche un metro, forse, e già allungavamo il collo verso le cose, senza escludere nulla. 

Le nuvole non erano nuvole, erano persone, animali, orchi, ghiacciai, montagne bianche, e niente poteva convincerci del contrario. 
Un tempo non avremmo mai rinunciato alla fantasia.
E neanche alle domenica in campagna.



Ricordo ancora quando, subito dopo pranzo, la mamma e le altre signore impastavano la pizza per la sera. La coprivano con dei panni per lasciarla lievitare e scherzavano sul fatto che la loro pancia, dopo tutto quel cibo, fosse invece già lievitata.

Quindi, esisteva una sorta di rituale pomeridiano, che era un tassello fondamentale delle domeniche in campagna: la passeggiata.

A parte gli anziani che preferivano fare la salsa, si usciva tutti insieme a camminare. Erano passeggiate lunghissime, piene di soste, non esistevano ancora i telefonini e quindi non si facevano molte foto, eppure ricordo perfettamente quei luoghi, il fragore, le corse di noi piccoli per arrivare prima dei grandi.

Capitava, delle volte, che si andasse a casa di alcuni amici dei miei genitori che possedevano una casa nelle campagna oltre le gole del Disueri, a pochi km da Gela.

Dalla casa si vedeva il Castelluccio, una delle torri di guardia costruita in epoca normanno-sveva per vegliare quelle terre dagli attacchi saraceni.
Si erge sulla piana da uno sperone di roccia gessosa, di notte sembra parte del cielo. Durante le passeggiate ci andavamo spesso.
Allora, una volta lì sotto, si giocava alle principesse e ai principi.
Ci avevano già raccontato tempo addietro della bella Castellana che lo aveva abitato secondo i racconti popolari.
Si diceva che, proprio in quella fortezza, si aggirassero strane presenze, difatti i viandanti e i contadini di allora raccontavano di scorgere spesso strane cose, specialmente di notte: figure incosistenti, canti remoti e oscure figure. Avevano tutti paura di quel posto e nessuno voleva andare a lavorare le terre limitrofe. Un giorno i canti smisero di riempire la notte, le figure sparirono e nessuna donna fu più vista al castello. 
Giorni dopo alcuni contadini coraggiosi decisero di avvicinarsi per controllare cosa fosse successo e, con loro grande stupore, non trovarono nessuno. Era come se quella fortezza fosse sempre stata disabitata.


A quanto pare esiste un passaggio sotterraneo che collega la torre di controllo alla città, precisamente alla "Batìa",  l'ex Convento dei Benedettini, sito nel centro storico di Gela.



Quando mio padre me lo disse avevo circa sette anni e la mia fantasia era priva di confini. Iniziai quindi a pensare che la castellana e gli esseri che abitavano con lei fossero fuggiti per quel tunnel verso la città. Pensavo che, magari, la castellana si fosse costruita una nuova identità, per sfuggire da qualcosa, e che avesse sposato qualche giovane gelese.



"Magari ha sposato qualche tuo antenato e quindi siamo veramente delle principesse del castello".



Le domeniche in campagna finivano sotto la doccia, dopo aver mangiato l'ultima fetta di pizza rossa rimasta, uno sbadiglio senza pensieri e le scarpe a prendere aria sul davanzale.






Per approfondire la storia del Castelluccio: http://www.gelacittadimare.it/castelluccio.html

giovedì 15 marzo 2018

Nelle città di mare

(Spiaggia di Pisciotto. Agosto 2016)



Come si vive in una città priva di mare?
Me lo domandavo qualche estate fa mentre camminavo sulla battigia della Spiaggia di Pisciotto, vicino Licata, e la Rocca di San Nicola sembrava una foca che aspetta qualcosa di sorprendente  spuntare nel cielo. Passeggiavo tra la gente e mi rendevo conto soltanto allora di quanto fosse lunga la spiaggia. I gabbiani sorvolavano l'isolotto, si davano il cambio con un'organizzazione quasi metodica e volteggiavano intorno alla sua piccola punta di pietra per poi tuffarsi verso la torre di avvistamento lì vicino. Camminavo da circa 15 minuti e non ero ancora arrivata alla Rocca.
Quando ero bambina adoravo ascoltare le storie che gli altri avevano da raccontare sulle cose che mi circondavano e, da brava bambina curiosa, non risparmiavo mai un " Questo cosa è?".
In una di quelle occasioni mi fu raccontata la storia della Rocca secondo la mitologia greca. Nel XIII secolo a.C. era un isolotto e veniva chiamato Inico. A quel tempo la Sicilia era divisa in cerca tre grandi regioni controllate da Sicani, Siculi e Elimi. Si dice che sopra l'estremità dell'isolotto fosse collocata la reggia del re sicano Cocalo e che questi, proprio in quel posto, avesse ospitato Dedalo in fuga da Minosse. Dedalo era infatti un famoso architetto e scultore, responsabile della costruzione del Labirinto dove fu rinchiuso per ordine di Minosse il Minotauro, nato proprio dall'unione tra la moglie del re Minosse e il toro sacro inviato da Poseidone. Il re Minosse vi rinchiuse anche Dedalo, giacché questi era l'unica persona al mondo a conoscere la struttura e, dunque, l'uscita del labirinto. Dedalo riuscì comunque a scappare costruendo delle ali di cera e raggiunse, dopo varie peripezie, la Sicilia. Si narra che quando Minosse giunse alla reggia del re Cocalo per riacciuffare il fuggitivo, Dedalo, aiutato dalle figlie di Cocalo, riuscì ad uccidere Minosse.

La battigia salata, qualche onda, il vento frusciante, camminavo senza rendermi conto di quanto fossi fortunata ad avere sempre un lembo di mare al mio fianco.
Quante storie ci ha restituito la marea, quante cose, quante conchiglie sono diventate collane, ricordi, pezzi di sorrisi.

Quel pomeriggio ero con la mia famiglia e Ciccio.
Andammo anche a Torre di Gaffe, oltre Pisciotto, a bere un caffè nella piccola piazzetta antistante la strada che conduce alla spiaggia.

"Ma ci sono ancora i surfisti?"

L'acqua di Torre di Gaffe cambia colore spesso, dipende tutto dalle correnti che la attraversano. Ha un fascino selvaggio e un sapore delicato e quando non c'è molta gente si avverte una strana musica, come se da qualche parte, oltre le onde, un'orchestra si svegliasse.
Sovrasta la spiaggia un'altra piccola torre di avvistamento che dovrebbe risalire al Seicento.

Anche se è certo che dalle torri si scrutasse l'orizzonte per avvistare navi nemiche, mi piace pensare che anche allora qualcuno ci salisse per osservare il mare baciare la spiaggia di notte. In cerca di domande, di risposte più o meno sensate, o in cerca di sogni, di amori lontani, di affetti sepolti. Chissà se ogni tanto anche i marinai si distraessero a guardarlo con sorpresa.
Anche se lo hai davanti agli occhi da una vita esiste sempre un momento in cui è in grado di sorprenderti, di lasciarti senza fiato. Chissà quante volte i nemici hanno sperato che le sentinelle si distraessero così per poi attaccare le città dietro la notte.

 Nelle città di mare esiste una magia incontaminata, incastonata nel tempo e nello spazio, dove le presenze e le assenze non sono mai totali. Dal mare ti aspetti sempre che prima o poi ti restituisca o ti porti qualcosa che hai perso o che hai sempre cercato.

In piedi o seduti davanti al mare,  le onde sono flebili o feroci, e chissà dove si rifugiano le persone che vivono lontano dal mare, chissà se sono in grado chiudere gli occhi e sentirlo come capita a chi lo ha sempre avuto davanti e un giorno è costretto ad allontanarsi.




(Spiaggia di Pisciotto, Agosto 2016)


(Spiaggia di Pisciotto. Luglio 2016)

(Spiaggia di Pisciotto. Luglio 2016)



(vista dalla strada sopra la Spiaggia di Pisciotto. Agosto 2016)


(Rocca di San Nicola, Luglio 2016)



martedì 13 marzo 2018

Vendemmiare nei campi confiscati alla mafia

(Feudo Verbumcaudo. Settembre 2017)

Ho scoperto la vendemmia soltanto a 26 anni compiuti, all'alba di un tiepido giorno di Settembre senza ombra. In realtà quel giorno ho scoperto molto di più e oggi voglio raccontarlo.

Mi trovavo a Corleone da un giorno perché dovevo coordinare insieme a Beatrice, per conto dell'Arci (Associazione Ricreativa e Culturale Italiana), un gruppo di ragazzi toscani giunti in Sicilia per prendere parte al progetto di antimafia sociale e legalità democratica "LiberArci dalle Spine", organizzato annualmente grazie alla rete e al supporto di diverse realtà del territorio nazionale, tra cui la "Cooperativa Lavoro e Non Solo", l'Arci Sicilia e l'Arci Toscana e tanti altri partner. Da anni la Cooperativa ospita a Casa Caponnetto, nel cuore di Corleone, migliaia di volontari provenienti da tutta Italia per coltivare le terre sottratte alla mafia, in diversi comuni siciliani, e partecipare ad attività e seminari sull'educazione alla legalità. 
Abbiamo pattuito dei turni delle pulizie e stabilito le nostre regole per creare una convivenza democratica, inclusiva e attenta alle esigenze di tutti.  

Il primo giorno la sveglia suona che fuori dal balcone di Casa Caponnetto è ancora buio. La strada è estremamente silenziosa e le luci gialle dei lampioni illuminano fiocamente i palazzi circostanti. Scendo di sotto perché so già che fuori attende Giovanni con un cornetto alla marmellata caldissimo e morbido. Mentre lo osservo preparare la colazione, tra un caffè, qualche chiacchiera e uno sbadiglio, arrivano gli altri ragazzi. Il primo giorno di vendemmia. 
Dopo un'ora e mezza di strada arriviamo ad una vecchia cascina. L'alba si è appena dissolta e qualcuno mi chiede cosa sia questo posto.
"Questo è Feudo Verbumcaudo, è stato confiscato ai fratelli Greco dal giudice Falcone"
E mentre lo dico non so descrivere cosa provo, riconoscenza, commozione, orgoglio, rabbia, è un guazzabuglio di mille sensazioni.
Raccogliamo da uno stanzino delle casse che carichiamo sul furgoncino e scendiamo ancora per qualche metro. Siamo arrivati al vigneto. 
L'oro del grano investe il verdeggiante vigneto da destra e sinistra, c'è odore di aria pulita e la terra sotto i nostri piedi inizia a riscaldarsi con i primi raggi di sole.
Dopo mezzora fa già molto caldo.
Bernardo, un socio della Cooperativa, ci spiega come procedere, e ci consegna le forbici per la vendemmia. Infiliamo i guanti e iniziamo.
La vendemmia è condivisione e organizzazione. 
"Tu fai quel filare....andiamo a scendere."

"Le ceste lasciatele sotto il vitigno che poi passiamo a prenderle noi".
Da uno stereo portatile fluisce musica di ogni genere, il sole è forte, le mani sono sporche e le vespe assalgono i filari.
Eppure respiriamo tutti una strana e dirompente allegria che neanche la stanchezza riesce a smorzare. Ci stiamo sporcando le mani di terra nei campi di chi un tempo si sporcava le mani di sangue. Stiamo restituendo, insieme ai lavoratori della Cooperativa, un pezzo di terra che per anni è stato negato alla collettività. Il nostro sudore diventerà vino che sarà poi venduto nella Bottega della Legalità di Corleone e distribuito nella rete di acquirenti responsabili creata dalla Cooperativa.
Tra le campagne di Polizzi Generosa, Valledolmo e Vallelunga, nel vigneto Verbumcaudo dedicato adesso a Placido Rizzotto, ad un'ora e mezza di distanza da Corleone, nei terreni confiscati al boss Michele Greco, ci siamo noi, adesso. Tra una risata ed un'altra il tempo vola, abbiamo raccolto già circa cinquanta casse di uva e soddisfatti facciamo ritorno a Casa Caponnetto, un immobile confiscato alla famiglia Grizzaffi, nipoti di Totò Riina.

Siamo parte di una nuova forma di resistenza sociale che nega con forza e convinzione le mafie di ogni tipo, i loro dispositivi violenti e denigranti. Siamo parte di una nuova curiosità che pretende luce, sempre, di una nuova voglia di riscatto che non lascia spazio al timore e al silenzio: non abbiamo bisogno di gridare perché questi piccoli gesti sono in grado di trasformare costantemente tutto ciò che ci circonda e che un tempo era marcio. Lo capiamo ad ogni passo, ad ogni grappolo di uva tagliato, ad ogni colore che scoppia all'improvviso oltre i filari. Le ferite del passato sono cicatrici che trasformiamo in sorrisi.

La storia pesa su ogni pezzo di terra, ma noi voltiamo ogni giorno pagina, scriviamo più forte.
Siamo al centro della storia, della nostra storia, ce ne vogliamo riappropriare come stiamo facendo con le terre, di tutti.

Era il 1891 e nascevano nelle nostre campagne i "Fasci dei Lavoratori", un grande movimento popolare che chiedeva diritti. E si fecero chiamare così perché avevano capito già allora che "un bastone tutti lo rompono, ma un fascio di bastoni chi lo rompe?".

Questo gruppo, questa unione liquida che lega le persone, attraverso il tempo e i mutamenti, i siciliani onesti che ogni mattina costruiscono sopra le macerie, è motivo di orgoglio per me.

Quel giorno di vendemmia ho provato questo. Ho visto tutti quei giovani ragazzi fregarsene del sole scottante, sorridere e scherzare tutti sporchi dove prima non c'era niente, raccogliere frutti nuovi di una storia che stiamo provando a restituire a noi stessi e agli altri, e per un attimo mi sono commossa.
Il sole ha asciugato tutto in fretta, non quella meravigliosa immagine, però.




(Feudo Verbumcaudo. Settembre 2017)


(Feudo Verbumcaudo. Settembre 2017)


(Feudo Verbumcaudo. Settembre 2017)


(Feudo Verbumcaudo. Settembre 2017)


martedì 6 marzo 2018

Che città è?

(Gela. Aprile 2017)

"Ma Gela che città è?"

"Ma come le altre, credo."

"Non è una risposta."

"Ti ho risposto."

"Va bene, allora facciamo che hai risposto ma non alla mia domanda."

"Come ti dovrei rispondere, cosa ti aspetti che ti dica? Vuoi sentire anche tu la storia di tutte quelle persone che ho visto ammalarsi, curarsi, morire, salvarsi, vuoi che ti racconti la storia del petrolchimico? Del mare che abbiamo d'estate, a volte bello a volte no, o vuoi sentire qualche altra storia che non saprei ricordare adesso?"

"Veramente volevo capire."

"Anche io. Ma non ci sono ancora riuscita."

"Quindi Gela è una non-città. Va bene."

"Assolutamente no. Ma che razza di domanda è la tua?"

"No, piuttosto perché ti arrabbi."

"Perché mi si attorcigliano tutte le cose che ho dentro quando provo a risponderti. Mi fa male tutto qui, guarda, e non so dirti che posto esatto, da dove parta, ma mi fa male. Mi sembra che si stringa tutto, che non riesco a respirare per un po' e mi arriva fino alla testa come un veleno. Sento quello che potrebbero provare gli alberi quando gli strappi tutte le radici con forza, penso che sia quel tipo di dolore lì. Veramente, non sono arrabbiata è che non so risponderti."

"...."

"Lo sai che mi manca quando sono via?"

"Eh..."

"...Non so neanche dove inizia e dove finisce, mi sembra immensa. Non so se sia la gente che ci vive, non so se sia il mare, l'inquinamento, non so se Gela sia quella bella sera d'estate in cui ho fatto il bagno di notte e dalla riva vedevo tutte le sue luci capitolare dal cielo. Non so, invece, se sia anche o solo quella valigia che ho fatto quando sono andata via, gli amici che la sera, attorno ad un tavolo, ridono nonostante i problemi, non lo so cosa è. Non lo so se sono i bar pieni di gente che si saluta, o la tristezza di quelle mamme che parlano a telefono con i figli lontani, magari è pure quella bambina che poi diventa ragazza e vede il padre tornare ogni due mesi a casa, sempre con la stessa speranza che rimanga. Non so se Gela sia la sua estate o il suo inverno. Capisci? Non so dove inizia e dove finisce, e non so neanche come. È iniziata quando le campagne si sono trasformate in strade o quando le strade si sono riempite di gente che non aveva più una strada? È iniziata quando l'amicizia si è trasformata in clientelismo o quando da bambina giocavo per strada e non mi succedeva niente? Mi sporcavo le mani felice e tornavo a casa dopo il tramonto e adesso, buh non lo so, mi sembra meglio uscire dopo, a volte. È Gela quando ti tradisce o quando la solidarietà è così tanta che ti commuove? Mi fa male, ma sento che non è solo male questo strappo qui, penso che sia anche mancata rassegnazione. No, non ti so rispondere, davvero."

"Ti fanno cosí male soltanto le cose che non riesci a non amare."

" Non so se sia lei a farmi male o se sia io, se siamo noi. Forse mi fa male per questo."



sabato 3 marzo 2018

Il Pozzo di Gammazita

(Quadro attribuito a Josquin Desprez)

Novembre 2017.
Mi trovo a Catania per uno scambio giovanile. Sono qui già da qualche giorno e, tra una sessione di workshop mattutina ed una pomeridiana, il tempo per visitare la città è veramente poco. Anche se sono già stata un'infinità di volte a Catania, non posso dire di conoscerla perfettamente. Quando ci comunicano che Giovedì avremo un'intera giornata di tempo libero, iniziano tutti a progettare cosa fare, dove andare e quale mezzo noleggiare. Volano i primi nomi: Etna (visitata oltre dieci volte), Siracusa (ci sono stata qualche mese fa), Taormina (la conosco fin troppo bene), letto (odio dormire). 
Si dividono tutti tra le prime due mete. 
Ora, io sono estremamente socievole, ma quando vado in esplorazione preferisco andare sola e non soffrire l'indecisione o la fretta altrui. Ecco che trascorrerò buona parte del mio giorno libero a Catania. Sola.

Alle 9.30 varco il portone dell'ostello e mi perdo tra i vicoli e le strade della città sotto un insolito sole cocente e munita della mia fotocamera. Vado un po' ovunque, entro nelle chiese, mi addentro tra i tendoni dei mercati, nei palazzi antichi, perlustro addirittura l'Archivio Storico di Stato senza capirci nulla. Un simpatico vecchietto di tanto in tanto mi controlla, o forse non riesce a credere che io possa realmente essere interessata all'Archivio.  Mi fa cenni con le mani come a dire " continui pure" e il suo sguardo indugia sul tetto  per qualche istante. Non c'è nessun altro visitatore a parte me. Probabilmente perché è quasi ora di pranzo e dovrei già essere dentro un panino. 
Saluto, scendo a due a due i gradoni e mi fiondo nel primo panificio lì vicino.
Mentre addento il panino controllo il mio smartphone alla ricerca di qualche altro posto da visitare. 
Il Pozzo di Gammazita.
Clicco sull'icona nello schermo e spulcio un po' per il sito. Da qualche parte qui vicino c'è un'associazione che  organizza dei tour giù per il pozzo. E ovviamente a quell'ora è chiusa.
Scorro la decrizione velocemente.
Il nome del pozzo non è casuale, anche su di lui aleggia una leggenda. Mi emoziono, io stalkerizzo le leggende.
Secondo il racconto Gammazita era una giovane donna dal bellissimo aspetto e perciò corteggiata da molti uomini, in particolar modo da uno, un cavaliere francese. Questi era molto insistente con la giovane che, però, non intendeva cedere alle sue richieste, nonostante ne fosse invaghita, giacchè "non intendeva cadere nel disonore" prima di un fidanzamento e un matrimonio ufficiali. Quindi cadde nel pozzo. Anzi si lanciò giù nel pozzo.
Alcuni dicono che il cavaliere francese fosse stato in realtà inviato da una rivale in amore, Macalda, ricca e affascinante donna catanese (e mica tanto se doveva ricorrere a questi stratagemmi), la quale era innamorata del suo giovane paggio senza essere ricambiata. Questi, infatti, si era da tempo innamorato di Gammazita. Macalda aveva inviato il cavaliere francese alla corte di Gammazita affinchè questi riuscisse nell'intento di disonorarla, così da allontanare  per sempre  il paggio da Gammazita, porre fine al loro amore e far sì che egli tornasse alla corte di Macalda.
Ormai devo vederlo.
Ma nessuno mi sa indicare esattamente il posto. Sembra che pochissimi catanesi conoscano la sua posizione, alcuni ignorano la sua esistenza e mi guardano come se stessi provando a vedergli un unicorno.
Mi perdo almeno dieci volte. So che è qui vicino, perché nella mappa è veramente a pochissimi passi dal Castello Ursino, ma io davvero non vedo nessun dannato pozzo. Dopo un'ora decido che è meglio bere un caffè al mercato del pesce, a piscarìa, che a quest'ora è ormai semivuoto. Al chioschetto il tipo mi riconosce. Praticamente ci sono andata ogni mattina fino ad oggi perché la mattina presto il mercato è uno spettacolo di abbannìate e vocioni, di sorrisi e di frenesia. 

"Ma sei ancora qui?" e sorride afferrando una tazzina dallo scolapiatti.

Lo guardo affranta "Sì, oggi sto esplorando un pochino la città."

"Dove sei stata?"

Glielo dico e poi aggiungo "...volevo vedere anche il Pozzo di Gammazita ma l'unica cosa che sono riuscita a trovare che possa somigliare ad un pozzo sono i tombini. Ma è possibile che raggiungo il posto indicato dalla mappa e non c'è niente?"

" 'Che ti vuoi lanciare anche tu di sotto?"

"Veramente un ottimo consiglio... Ma tu sai dove si trova?"

E dal suo sorriso direi proprio di sì!

Lascia il bar al suo collega, mi fa cenno di seguirlo e si incammina. Mi dice che quel pozzo lo conoscono davvero in pochi a Catania, perché non è in una piazza o in una strada principale.

"...si trova dentro un cortile privato. Vedi...adesso giriamo e siamo praticamente arrivati. Dobbiamo suonare a qualcuno perché sennò come facciamo, devi attaccarti al campanello e forse qualcuno ti apre. Ma tu diglielo che vuoi vedere il pozzo."

Costeggiamo per qualche secondo un muretto che divide la strada dai binari della ferrovia e sbuchiamo in una piccola piazzetta accerchiata da vecchi palazzi di pietra. Dai fili di un balcone cade giù qualche goccia d'acqua. Qualcuno deve avere appena steso i vestiti, penso, quindi suoniamo al campanello che dovrebbe corrispondere a quell'interno.
Dopo qualche secondo si affaccia al balcone una signora con dei grossi occhiali rotondi.
Non le lascio il tempo di dire nulla: " Signora, salve, potrebbe aprir..."
"No, signorì, non ne vogliamo libri di Geova, cà semmu tutti cristiani"

Mi ha scambiata per una testimone di Geova, l'adoro.

"Signora, non sono qui per venderle un libro, vorrei vedere il Pozzo di Gammazita, sarebbe così gentile da aprire il cancello? Giuro che guardo, scatto una foto e vado via. Non la disturbo più dopo"

Sembra che stia per dire qualcosa, esita, ma alla fine entra senza dire nulla.
"Sarà sorda, boh", mi dice il tipo del chioschetto. Nello stesso istante un trillo: ha aperto il portone. 
Quando entro lei è già affacciata alla finestra che affaccia direttamente sul cortile e mi fissa.
Giuro che l'adoro.
Il tipo del chiosco saluta, "Ci vediamo domani, solito caffè stretto, mi raccomando", e va via con un sorriso che gli occupa tutto il viso.
Il pozzo non è come quelli che si vedono nei cartoni: è profondissimo e ha delle scale.
Faccio qualche foto dall'alto, scendo giù, mi soffermo sulle ripide gradinate. Improvvisamente penso a quante persone prima di me, fin dal 1200 circa, avranno calpestato queste scale e poi alla giovane Gammazita. Il pozzo è molto profondo. Doveva essere decisamente brutto quel cavaliere francese.

« Tu di lu cori sì la calamita
La mia palora non si cancia e muta;
Ti l'hè juratu e ti saroggiu zzita,
Chista mè porta ppi l'autri è chiujuta:
Cala li manu si mi voi pi zzita,
l'ura di stari 'nzemi 'un è vinuta:
si cchiù mi tocchi, comu Gammazita,
Mi vidi 'ntra lu puzzu sippilluta"

(L. Vigo, Opere - Raccolta amplissima di canti popolari siciliani, vol. II, Tip. Galatola, Catania 1870-74)



Per visitare il Pozzo di Gammazita e ricevere altre informazioni consultare il seguente link: https://www.gammazita.it/

venerdì 2 marzo 2018

A rattata - Storia di una granita e di una brioscia

(La granita. Palermo. Settembre 2017)


Estate 2017.
Si è fatto tardi. 
Ho una voglia disperata di granita con la brioche, come ogni maledetta mattina, ma il trasloco è alle porte e mi sarei dovuta svegliare almeno due ore fa e adesso non c'è tempo neanche per il caffè. 
Avrei dovuto iniziare a raccogliere qualche scatola di cartone per imballare i primi oggetti già da un mese. Niente, questa relazione con il tempo mi ha sempre distrutta.
Esattamente ci sono almeno due liste di cose che non vanno, lo scirocco che ha preso la residenza fuori dalla mia finestra e  vari ritardi accumulati.
Vabbuò, vediamo se stamattina qualcuno si è svegliato gentile.
Ecco, entro nel primo negozio per chiedere se possono darmi qualche scatola.
Ho voglia di granita con la brioche.

"Guardi, li abbiamo appena dati ad un signore"

Voi lo sapevate che prima la granita si faceva davvero con la neve? Cioè, una volta il padre di un mio amico mi ha raccontato questa storia dei "nivaroli" e io ho pensato a quanto l'evoluzione sia stata benevola nei confronti di noi nuove generazioni, almeno per quanto riguarda la colazione in estate. Doveva essere un pò schifosa la granita nel Medioevo. Comunque, mi ha detto che i nivaroli raccoglievano e conservavano tanta neve in alcuni posti freschi sulle montagne siciliane e che poi i ricchi la compravano, facevano delle spremute di agrumi che poi versavano nel bicchiere pieno di neve, miscelavano e la mangiavano. Sempre d'estate. 
Cammino ancora.

Io ho davvero voglia di granita. E della "brioscia", ovviamente.

Nel secondo negozio mi sento a disagio. Mica posso scavalcare tutta la fila  alla cassa per chiedere di uno scatolone. E invece lo faccio.
Primo scatolone agganciato.

Comunque io ho ancora voglia di granita.

Tutti gli scatoloni di Palermo sono spariti e dopo due ore di rocamboleschi tentativi sono riuscita a trovare solo due scatole dove entrerebbero a malapena tre tazze. Ottimo.
Al telefono dico a qualcuno che sto cercando scatoloni per tutta Palermo come una dannata "Ho la lingua di fuori, cammino da due ore e fa caldissimo. Tengo duro e vediamo di conservare le prime cose".

Sono già seduta al bar e, gesticolando con il menù in mano, ho già ordinato la granita al limone. Con la brioche, ovvio. 

Francamente, posso resistere a tante cose, ma non a questo. Sì, ormai ho detto al mio interlocutore che sto cercando le scatole e no, non voglio ammettere di essermi arresa.

"Sì, lo so... non ho avuto tempo di fare nulla. Ho messo i vestiti al contrario, non ho pettinato i capelli, un mostro che cerca scatole sono".

Rumore di stoviglie di vetro, odore inconfondibile di agrumi, il calore della brioche calda appena percepibile mentre la cameriera sfila la mano a due centimetri dal mio naso.

"...va bene... Adesso devo andare, ci sentiamo dopo, ciao.... Sì, ciao, ciao. CIAO. A dopo, okay, va bene. Ciao. Come no! A dopo. Stacco...ciao, ciao."

Una granita con la brioscia, la fisarmonica che ricama l'aria intorno, e nel mentre arriva il caffè.

Ma veramente la mattina si può essere felice con tre euro?



giovedì 1 marzo 2018

Falesie, rocce e finestre di pietra





(Scala dei Turchi, Realmonte. Foto di Andrea di Benedetto)

Una mattina dell'agosto del 2009. Gita fuori porta. Partii da Gela insieme alla mia famiglia, ai miei zii e ai miei cugini, direzione: Scala dei Turchi. Inutile dilungarsi sull'afa di quel giorno e su quanto avvenne durante il viaggio (sì, abbiamo sbagliato strada almeno due volte), perché quel che conta è cosa trovammo al nostro arrivo. 
Non ero mai stata in questa zona e, lo devo dire, me ne pentii immediatamente. 
Una falesia bianca, a strapiombo sul mare, così candida da sembrare panna montata ad arte. Dal parcheggio sembrava una nuvola caduta per terra. 
Non ricordo di aver fatto neanche il bagno perché il mio unico interesse era quella dannata falesia. 
Camminarci sopra non era per nulla agevole, la marna scottava talmente tanto che anche sedersi costituiva un atto di coraggio, ma alla fine, con qualche dolore, riuscii nell'impresa. Il nome di questa falesia è dovuto alla sua forma (appunto quella di una scala) e ad alcuni racconti: si dice che intorno al '500 i corsari saraceni, dopo aver ormeggiato le proprie imbarcazioni ai suoi piedi, arrampicandosi per la marna bianca, riuscirono più volte a raggiungere i villaggi circostanti per razziarli e tornare a casa con ricchi tesori. 
Poi giù, tra le onde blu del mare e all'ombra della Scala, notammo una roccia solitaria di marna bianca. In quel momento un signore raccontava ai suoi compagni la sua storia. Lo chiamano "u scoglio do zitu e a zita", perché una leggenda popolare attribuisce la sua presenza lì, in quell'esatto punto, alla storia tragica di due giovani innamorati, Peppe e Rosalia, il cui amore fu fortemente osteggiato dal padre della ragazza. I due innamorati riuscirono comunque a incontrarsi un'ultima notte sulla punta della Scala dei Turchi dove si giurarono amore eterno, gettandosi mano nella mano in mare e scomparendo tra le onde e la bonaccia. 
Racconta la leggenda che dopo alcuni anni, proprio lì, spuntarono due scogli tenuti insieme da una lingua di pietra e che alcuni pescatori, nelle notti di bonaccia sentirono spesso  il dolce sussurro di un canto di donna.

Le coste della mia terra sono  ricche di falesie che interrompono il flusso del mare, di finestre che sembrano precipitare verso il basso. Qualsiasi borgo, contrada, paese e città di mare ne possiede una. 
Le puoi scalare, ci puoi dormire, sognare, e da lì il suono del mare è più chiaro e sincero. Bisbiglia, mentre le reti dei pescatori sfilacciate dalla salsedine vengono raccolte con stanchezza, mentre una piccola barca scorre verso il porticciolo. Oppure mentre la solitudine sembra tanta ed invece non è altro che silenzio vivo.
(Dalla riserva di Isola Bella. Maggio 2017)

(Isola Bella, finestra naturale sul mare. Giugno 2017)

(Spiaggia di Gela. Luglio 2016)

(Piscine di Pisciotto. Agosto 2016)



(Isola delle Femmine. Giugno 2017)

(Costa di Mazzarò. Giugno 2017)

(Mondello, Palermo. Febbraio 2015)

(Montelungo, Gela. Aprile 2016)

(Mondello, Palermo. Marzo 2013)

(Montelungo, Gela. Febbraio 2015)

(Riserva di Isola Bella, Percorso Acacie. Maggio 2017)

(Dalla Villa Comunale di Taormina. Maggio 2017)

(Falesia di Sant'Alessio Siculo. Maggio 2017)

(Falesia di Mazzarò. Giugno 2017)

(Mazzarò. Giugno 2017)

(Grotta azzurra, Mazzarò. Giugno 2017)



(Punta Bianca. Foto presa dal web)