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domenica 29 luglio 2018

È Vucciria finchè le balate sono bagnate







Io non ho mai letto un libro su Palermo, un libro che spiegasse Palermo, la sua storia, i suoi usi, non ho mai acquistato una guida turistica.
Io Palermo l'ho conosciuta tra le sue strade e i suoi vicoli, nel trambusto delle sue piazze e tra le abbannìate dei suoi mercati, ho capito di amarla il giorno prima della mia laurea. Era luglio ed ero sdraiata sul divano a boccheggiare per via dell'afa e dalle finestre, quando ho sentito il fruttivendolo di sotto parlare a gran voce con la dirimpettaia del secondo piano e il signore dell'edicola rimproverarli.

"Mica siamo alla Vucciria, qui la gente riposa!"

Ed io ho iniziato a piangere piano piano, fino a singhiozzare. Non me ne sono mai vergognata, né mi sentirò mai  stupida per questo.

Ho trascorso a Palermo gli anni più belli della mia vita e non mi pentirò mai di averla scelta. Io me lo ricordo ancora quell'istante esatto in cui Palermo è diventata il mio destino: era estate e dovevo decidere in quale città studiare. Mentre tutti andavano lontano, in città ordinate e composte, io ho sentito di non poter rinunciare al mare, al chiasso, al dialetto, alla fame, alle cose complicate, al mio cuore.
Probabilmente altrove sarebbe stato più semplice, ma non sarei stata felice.
Palermo mi ha costretto spesso ad essere felice anche quando non c'era una ragione per esserlo, mi ha insegnato ad aspettare, a recuperare il cuore dalla gola, a cercare, andare sempre avanti, oltre alle stradine apparentemente brutte, mi ha insegnato che la bellezza reale si annida laddove nessuno la cerca. Quanto ho camminato! A piedi, in moto, in macchina, in treno, nei bus urbani, in bicicletta, l'ho percorsa tutta, mi sono seduta a guardarla. Mi sono innamorata di Palermo di giorno, la domenica, a mare, nei pomeriggi uggiosi, quando la pioggia mi sorprendeva all'improvviso, durante le sere di primavera, un attimo prima del tramonto su via Maqueda, nel bel mezzo dell'alba su Piazza San Domenico, e la notte, le notti in cui si balla stretti tra i vicoli, con la musica che sovrasta ogni respiro, e nessuno può sentirsi solo o lontano. Quelle notti in cui le balate del mercato della Vucciria non si asciugano e la gente s'impasta i piedi e le suole, una distesa di colori e di storie che si intrecciano dinanzi alla Taverna Azzurra, quando canti e balli in mezzo agli sconosciuti e ai passanti e improvvisamente è come se tacitamente tutti avessero accettato di essere diventati amici, almeno una notte. E le guerre di tutti si fermano, si sospende l'odio, il mondo non sembra poi tanto male. Le notti in cui l'odore della stigghiole avvolge tutto e non importa se hai fatto la doccia e dopo puzzerai, quell'odore in piazza Caracciolo, quella musica nel vicolo, non ti lasciano andare. Chiasso. E su, su via Roma, il mondo non ne sa niente.


"Non ho mai visto nulla del genere, cosa è esattamente?"

Una bellezza contaminata da bruttezza, una Palermo, questo, signora, può essere tutto: può essere un non-tempo, un non-luogo, una festa, oppure stasera può essere tutto quello di cui abbiamo bisogno.

Da quanti mostri invisibili mi ha strappato, da quanto silenzio mi ha salvato.

Finché le balate sono bagnate.




martedì 26 giugno 2018

Dai porti che sono come domani


(Porto di Licata, giugno 2018)




I porti sono come i domani.

Dal molo l'orizzonte ti sembra più dritto e vicino questa volta, sembra sia quello giusto, ma non sai se salperai tu o se ormeggerà lui. Alla fine qualcuno cede, cederà.

I ricchi prendono il sole dai loro yatch lucenti, cenano con un'insalata e del pesce e si vestono come barboni perché possono permettersi di sembrare poveri; le donne in bicicletta tengono con una mano la gonna ma nessuno ci fa caso, un uomo sbadiglia eternamente e scuote la testa, tutti impegnati a fare i mimi con se stessi. E tu mi dici che ho ancora il costume bagnato e la sabbia sui piedi.

Non fa freddo ma la gente si abbraccia lo stesso.

I lampioni sono accesi ma non è ancora sera, le luci sono tante o forse troppe, si vede una stella, si vede la luna, e non possiamo contare i sorrisi che scavalcano i visi dei bambini quando mangiano il gelato già sciolto.

Ma perché ti sei vestita di viola, questa mattina mi sono svegliato e ti ho immaginata con il vestito rosso.
E mangi un cannolo di ricotta che sembra una nuvola quando lo sollevi per morderlo.

Sopra quel gommone ci sono ancora i bambini che giocano a Capitan Uncino e Peter Pan e cambiano la storia continuamente. Non devi dire così, devi dire questo, devi fare questo, tu sei cattivo ed io sono buono, tu sei grande ed io sono piccolo, no anzi sei piccolo anche tu, ma resta qui che il gioco non è ancora finito!

Il cielo striato di rosa sembra un fascio di braccia avvinghiate prima di dormire, quelle che poi si slegano mentre dormi davvero, la tua mano è troppo grande per la mia, mentre guardi il faro dai tavoli del Caffè sembra che tu stia salpando, come il mio domani, ed il tuo, e quello della gente intorno a noi, e parli di cose che già ho scordato.

Ma t'immagini vivere nelle isole piccole di cui nessuno sa nulla? Senza i porti, senza i moli, senza le gonne delle donne e gli yatch dei ricchi, senza il gelato e Capitan Uncino, t'immagini vivere circondato dagli orizzonti? 

Il sole scivola sull'acqua e anche l'orizzonte sparisce.

Mi dici che se voglio ci possiamo andare nelle isole piccole piccole e dimenticate da tutti, ma almeno il cannolo con la ricotta lo vuoi.

(Il molo di Licata, giugno 2018)





giovedì 21 giugno 2018

L'uovo di struzzo






(La camapgna a Gela, maggio 2018)







- Papà, papààà! Ma questi uccelli perché non volano?

-Sono troppo pesanti, amore mio, e le ali sono di piuma leggera.-

-Ma se hanno le ali grandissime! Forse la loro mamma non gli ha insegnato a volare o si sono fatti male.-

Avevo sette anni e due struzzi giganti mi scrutavano minacciosamente da dietro una robusta rete metallica. Mio padre aveva da poco comprato degli struzzi per creare una sorta di allevamento. Erano quattro: due femmine e due maschi. Stavano in lunghi e larghi corridoi delimitati da reti altissime e quando correvano sembrava che una grossa moto avesse preso la rincorsa per saltare la collina in fondo. Non erano belli, avevano il collo troppo lungo e il viso troppo piccolo per appartenere a quel corpo così possente. Tuttavia, nutrivo una sorta di simpatia per loro, specialmente quando varcando il cancello li trovavo con il collo piantato nel terreno. Sognavo di salire sul dorso di uno di loro e correre insieme a loro, ma non sapevo ancora che uno struzzo è in grado di sventrare un uomo in pochi minuti e che attaccano anche i leoni.
Per me erano soltanto degli uccelli goffi che si erano scordati il trucco per volare. Mi ero messa in testa che avrei dovuto aiutarli. Così ogni tanto mi piazzavano davanti una delle reti e li incitavo, muovendo le braccia su e giù.

-Dovete fare così!-

Il più delle volte rimanevano a fissarmi inarcando il collo e formando una U sbilenca.

Credevo che fossero stupidi.

- Quando correte, dovete aprire le ali così e poi volate, dai!-

La risposta era trapiantare il collo sottoterra.

Un giorno mio padre tornò a casa con un grosso uovo, grande quanto una televisione da 18 pollici. Era un uovo di struzzo.

Per me, che a quell'età avevo una serie di amici immaginari di diversa natura (elfi, pirati buoni, alieni e animali), quell'uovo rappresentava un'occasione: gli avrei spiegato come volare.

Così lo presi fra le braccia e iniziai a parlarci fino allo sfinimento, così tanto che credo che si suicidò dentro il guscio. Lo tenevo dentro uno zainetto di pezza e per circa due giorni ignorai ogni essere vivente sulla faccia della terra e inizia ad attuare il mio piano.
Una mattina, prima di riportarlo all'allevamento, raccolsi dalla sedia lo zaino con i libri della scuola e inforcai in un braccio lo zainetto di pezza.

Arrivai in classe con un'insolita allegria mattutina e mostrai compiaciuta ai miei compagni di classe il mio nuovo amico.
La maestra non sapeva bene come affrontare quella presenza "ingombrante" in classe. Erano tutti estasiati da "Struzzy".

Credo che temesse la frittata sui banchi di scuola, così mi chiese se potesse tenerlo lei alla cattedra per "poterlo far vedere a tutti".

Non ricordo come, quando, né perché, ma qualche settimana dopo, durante una giornata primaverile soleggiata e calda, tutta la classe, con genitori e maestre, raggiunse l'allevamento con panini e bibite.

Il verde sterminato, il giallo del "lavure" (il grano), gli aranceti, i limoni, ho solo tanti ricordi confusi di quel giorno. Ma io lo so che è stato un giorno felice.
Ho mostrato a quei grandi uccelli che non sapevano volare a tuti i miei compagni, la mamma e il papà di Struzzy (che era già tornato al suo posto), e anche gli altri bambini concordarono con me sul fatto che fosse davvero da scemi avere le ali e non volare.

Allora era difficile comprenderne il perchè, non adesso.

Qualche anno fa ho tenuto un laboratorio d'inglese per bambini, durante un campus. Stavamo facendo un gioco per memorizzare i nomi degli animali,i bambini erano troppi e quindi, oltre agli animali "famosi", avevo dovuto trovarne altri meno noti da affibbiargli. Ad un bambino affidai il compito dello struzzo.

- Ma maestra, io non voglio fare lo struzzo!- protestò mettendo su una smorfia di disgusto.

Risi, immaginavo già questa risposta.

-E perché? Gli struzzi sono gli uccelli più veloci del mondo! Sono alti, forti e possono andare con la testa sottoterra!-

-Sì, ma non volano e sono brutti!- piagnucolò.

Iniziò un dibattito sugli struzzi che andò avanti per tantissimo tempo: alcuni bambini sostenevano che gli struzzi non volassero per prendere in giro gli altri animali, altri che volassero solo di notte, quando tutti dormivano, altri ancora che gli struzzi non volavano perché una strega cattiva aveva fatto loro un incantesimo per punirli perché troppo grandi e pericolosi, finché ad un certo punto Elisa, una bambina molto timida  si arrabbiò con loro e disse che non era vero niente, che gli struzzi sapevano volare.

-... Solo che hanno paura di cadere e farsi male. Si sentono al sicuro per terra, infatti hanno imparato a correre come la luce.-

Non è forse quello che fanno molti di noi?

Rimasi a guardarli per un po' mentre si confrontavano sulle ali degli struzzi.

Alla fine tutti volevano essere un "ostrich", aspettare la notte per volare, sconfiggere la strega cattiva dell'incantesimo e far passare agli struzzi la paura di volare.

C'è sempre un modo per farlo, anche senza ali, a volte basta semplicemente dimenticare cosa sappiamo di una cosa e immaginarla migliore, diversa.

Basta tornare un pò bambini per saper volare senza futili e sciocche paure.



martedì 19 giugno 2018

Ucciardone






(Casa di Reclusione "Ucciardone" di Palermo. Foto dal sito www.luftbildsuche.de)




Come ogni venerdì pioveva a Palermo. All'improvviso. Un minuto prima tra le nuvole si affacciava un tiepido sole, un istante dopo era sparito, peggio dei sogni quando ti svegli di soprassalto per un rumore improvviso, che però è soltanto nella tua testa. Io me ne stavo accovacciata sulla sedia blu dell'ufficio e guardavo fuori aspettando le 17:00. Mancavano le ultime settimane e avrei concluso il tirocinio. Una casa di reclusione. Io che detesto i luoghi chiusi.
Non me lo aveva imposto nessuno, lo avevo scelto io qualche mese prima. Mi sarei dovuta laureare a breve, avevo terminato gli esami e mancava soltanto il tirocinio curricolare. Prima di scegliere, avevo trascorso tre infiniti giorni nell'ufficio tirocini dell'università.

"Potresti farlo in questa Fondazione, si occupa di temi attinenti al tuo programma di studi, porti i documenti e le carte dietro, parlate un po', magari hanno posto" mi disse esasperata la responsabile dell'ufficio. Ne avevamo passati in rassegna almeno venti ma l'idea di trascorrere 150 ore a fare fotocopie non riusciva ancora ad allettarmi.

"...oppure guarda, un tuo collega qualche anno fa ha fatto il tirocinio in questo istituto di reclusione."

"In carcere..?"

In carcere.

E alla fine scelsi proprio quello. Mi ero messa in testa che avrei dovuto fare qualcosa che normalmente non avrei fatto, qualcosa che mi annoiava profondamente, che non conoscevo ma che nel mio immaginario non avrebbe mai suscitato il mio interesse.
In realtà, volevo fare qualcosa di diverso, su cui nutrivo qualche pregiudizio, e scoprire cosa si provasse a fare un lavoro diverso da quello dei miei sogni. Perché ero convinta che sarei finita a fare un lavoro che odiavo. In un certo senso, volevo prepararmi.

Invece, nonostante qualche difficoltà e qualche altro tirocinante con cui non andavo particolarmente d'accordo, mi resi conto di non odiare affatto quel genere di ambiente lavorativo.  Delle volte era cupo, ma scoprii di aver una capacità di adattamento invidiabile. Nel giro di pochi giorni ero riuscita ad instaurare un rapporto con la maggior parte del personale. La mattina presto arrivavo davanti a quel grosso cancello di ferro incavato tra le possenti mura borboniche dell'Ucciardone, firmavo, pausa al caffè. Poi in ufficio. I giorni passavano e le persone diventavano più nitide. Uno aveva la passione per le motociclette, l'altro aveva una moglie che cucinava benissimo, quell'altro ancora ascoltava musica neo melodica almeno una volta al giorno, quello invece aveva una passione per l'astrologia. A me quel posto iniziava a piacere. Quando entrammo nella zona dedicata ai reclusi con il responsabile degli educatori, scoprii quanto potessero divergere aspettative e realtà. Avevo immaginato quel posto diversamente. A tratti il cuore si stringeva nell'immaginare i figli dei detenuti giocare in quello spazio verde che l'amministrazione aveva sistemato per loro e i padri. Mi chiedevo cosa avesse fatto tutta quella gente per trovarsi lì, ognuno di loro aveva una storia, ma noi non potevamo chiedere e quindi non seppi mai perché il tipo sulla cinquantina che ogni tanto puliva gli uffici amministrativi fosse rinchiuso lì. Aveva un sorriso gentile che mostrava raramente perché il più delle volte rivolgeva il suo sguardo verso al pavimento. I suoi movimenti erano lenti e controllati. Avrà avuto dei figli, sicuramente una madre e un padre, chissà se venivano a fargli visita ogni tanto. Avevo sentito la sua voce soltanto una volta. Era il mio primo giorno e quel posto mi sembrava un labirinto. Dovevo andare a casa ma non trovavo la strada, ogni porta mi sembrava uguale. Non sapevo ancora che quell'uomo fosse un detenuto e mi ero avvicinata a lui cercando i suoi occhi timidamente.

"Scusi, sa dirmi dove posso trovare l'uscita?"

Si era fermato, aveva sollevato lentamente lo sguardo su di me e aveva improvvisato un'espressione che sul momento non ero riuscita a decifrare. Diventò di mille colori e capii di aver appena fatto una figuraccia.

"Signorina, lo chiede proprio a me?" aveva riso nervosamente " Deve attraversare quella porta e scendere, poi dovrebbe vedere il cancello".

Non ero riuscita a scusarmi, ma il mio volto, credo, espresse chiaramente il mio imbarazzo.

I giorni trascorrevano, il tempo cambiava, era Novembre e la pioggia era più frequente.

Durante la visita ai reparti dell'area di reclusione entrammo in una sezione a forma ovale molto alta, con tanti piani, tra un piano e l'altro erano presenti delle reti. Per non permettere ai detenuti di lanciarsi di sotto, intuii. L'educatore ci indicò delle insenature nella parete, alte pochi metri.

"Queste rientranze non sono casuali...Quando fu costruita la struttura, l'altezza media degli uomini era più o meno questa" disse indicando le insenature "Quando scoppiavano delle rivolte nel settore, i reclusi lanciavano oggetti alle guardie, spesso li ferivano, così ritagliarono questi piccoli ripari, le guardie si posizionavano qui per evitare di essere colpite."

Mentre uscivamo fui in grado di scorgere una donna con un sacchetto molto grande stretto in una mano, nell'altra teneva la mano di quello che doveva essere suo figlio. Entrarono.
Più tardi li vidi scambiare qualche parola nella sala colloqui con un uomo. Ogni giorno era più o meno così.
 I detenuti avevano una compagnia teatrale. A dicembre ci invitarono allo spettacolo che avrebbero realizzato nel cortile antistante gli uffici. Erano evidentemente emozionati ma furono bravissimi. C'erano le loro famiglie tra il pubblico, una piccola parentesi che dava una parvenza di casa.
Nel mondo dicotomico che qualcuno costruisce dentro di sé non c'è spazio per le sfumature, è una realtà violenta: o sei così o non sei così. Non c'è spazio per gli errori, i rimorsi ed il perdono, non ci sono risalite, soltanto tanti fossi. Dovremmo lasciare i nostri occhi e la nostra mente liberi di vedere e di comprendere le cose, le persone, gli avvenimenti, scacciare via retaggi e rigidità. Metterci in discussione il più spesso possibile.

Ogni esperienza ci regala qualcosa, una sensazione, un'emozione, una lezione, anche dei ricordi che in un certo senso si trasformano in una velata nostalgia, di tanto in tanto.
Ed io sono felice di aver scelto qualcosa che normalmente avrei evitato. Ho capito che non serve a molto rimanere ancorati al proprio punto di vista e che bisogna sporcarsi gli occhi per innescare la necessità di vedere. Vedere meglio.
Il tirocinio è finito, non ho fatto fotocopie, ho bevuto molti caffè e ci vedo meglio.

giovedì 14 giugno 2018

Arrivederci Ahmed





(La Vucciria, Piazza Caracciolo, Palermo)





Quella sera l'afa era insopportabile a Palermo e noi camminavamo con passi sbilanciati e rumorosi tra le viuzze del centro. Le balate erano ancora calde nonostante il sole fosse tramontato da molte ore, e la gente sventolava fogli di carta e ventagli per dare apparente sollievo al viso. I locali erano zeppi di gente che mangiava, beveva e discuteva facendo un gran baccano. Era giugno e gli esami non erano ancora finiti, però da qualche parte ci era rimasta un pò di energia per camminare dopo il tramonto e una disperata voglia di musica e allegria. Eravamo un bel gruppetto e nessuno di noi sembrava occupato da altri pensieri, eravamo lì pienamente. 
Mi ricordo di te Ahmed. Credo fosse quello il tuo nome. Eri così esile da confonderti tra la folla e i lampioni, mentre tra le mani stringevi un sacchetto di plastica rovinata e le tue spalle erano ricurve sotto il peso di uno zaino che aveva tutta l'aria di pesare più di te. I tuoi occhi guizzavano in quel trambusto alla ricerca di quelli delle altre persone. Ti abbiamo visto in pochi, probabilmente gli occhi di tanti ti hanno attraversato, ma solo qualcuno è riuscito a vederti veramente. Succede alle persone distratte o a quelle troppo concentrate su altro. Ti ho visto esattamente mentre prendevi posto ai bordi del marciapiede di pietra bollente e con una mano  ti toccavi il collo ripetutamente. Ti ho riconosciuto immediatamente, perché è quello che faccio io ogni volta che provo disagio e non so cosa fare. Torturo con le dita la pelle del collo e piego leggermente la testa. E mentre pensavo a questa cosa l'hai rifatto: hai piegato anche tu la testa. Ad un certo punto ci hai visto anche tu, a quel muretto di fronte a te, tanti ragazzi sicuramente più grandi di te, con la birra, le sigarette, i telefonini, intenti a scattare foto e a parlare a voce alta. Non hai incrociato il mio sguardo subito, perché sei rimasto ancora un altro pò con te stesso, a pensare a chissà cosa. Ti sei avvicinato con un sorriso che hai tirato su all'improvviso. Non capivo quanto stessi fingendo e ho aspettato che tu ci raggiungessi.
Ci hai chiesto se volessimo comprare delle cover per il telefono e noi non ti abbiamo risposto subito perché avevi al collo una collana bellissima di legno e Chiara ti aveva chiesto se ne avessi un'altra da venderci. Dicesti no, che quello era un regalo e che però ne avevi delle altre.
Mentre ci mostravi le tue cose ti sei seduto nel muretto vicino a noi e la tua allegria ci ha incuriositi. Eri piccolo allora, Ahmed, tredici anni, mentre adesso avrai l'età per guidare una macchina. Allora i tuoi polsi erano così sottili da sembrare delle spighe e la tua voce non era ancora quella degli adulti. Ci hai raccontato della tua fidanzatina che non vedevi da tanto tempo e di come tua nonna vestisse stravagante. Di quanto ti mancassero i tuoi amichetti e le strade della città dove hai vissuto da piccolo, però fa niente, Palermo ti piaceva tanto, dicevi, la gente era gentile con te. Alcuni un pò meno.
Ci hai parlato della scuola che frequentavi a Ballarò, dei tuoi compagni di classe e di quanto avessi sonno. Perché tu dopo la scuola e i compiti uscivi a vendere le cover dei telefonini. Lo dicevi senza cercare di commuoverci, con un sorriso che occupava tutto il tuo volto e metteva in evidenza la tua magrezza. Senza che tu potessi vedermi ho sfilato la cover dal mio telefono e ti ho chiesto di mostrarmene qualcuna. Ne ho scelta una bellissima, intagliata e colorata, e subito dopo mi hai regalato un ciondolo di plastica giallo e blu. Nel frattempo anche gli altri avevano comprato qualcosa, nulla di che, ma la tua spontaneità era così bella che sono certa la percepirono tutti. Ti hanno chiesto di dove fossi, e tu ci hai detto che non sapevi rispondere perché eri andato in così tanti posti che non sapevi scegliere.

Sei andato via con il sacchetto poco più leggero.

Ahmed, ti ho incontrato poche volte ancora e poi sei sparito, o forse sei cresciuto e non somigli più a quel ragazzino gracile e spigoloso, forse mi sei passato vicino altre volte e neanche tu mi hai riconosciuta, magari ti sei scordato, e non te ne faccio una colpa. Forse sei andato in un altro posto e hai recuperato il sonno perso in quegli anni, non saprei, ma avrei voluto dirti che anche io mi sono trovata tante volte in un angolo a toccarmi il collo e a fissare il pavimento. Tante volte. E se crescendo non l'hai ancora imparato, imparerai comunque, come me, che in tutto quel casino di gente qualcuno prima o poi ti vede. Potrà non diventare tuo amico, potrà approfittarsi della tua fragilità momentanea, potrà sorriderti complice, o potrà semplicemente rimanere dov'è. E tu potresti non accorgerti di tutte queste risposte, ma non sarai mai invisibile del tutto. 
Imparerai o lo hai già fatto, che tutti stiamo salendo una scala, che qualcuno nasce nel gradino più basso, qualcuno al centro, qualche altro ancora quasi in cima, e che questo non conta, perché siamo tutti in grado di risalirla, e che chi sta in fondo si stancherà tanto, ma avrà visto e imparato altrettanto.

Imparerai alla fine, che le cose a cui siamo più legati non sono in grado di trattenerci in alcun posto, perché non sono cose e non pesano niente. 


Arrivederci Ahmed.





sabato 9 giugno 2018

Isola



(Il Golfo di Palermo dal finestrino. Novembre 2016)



Vivere in un'isola, per quanto grande possa essere, ha i suoi pro e i suoi contro.

 Ho scoperto di vivere in un'isola in prima elementare, durante l'ora di Geografia. La maestra ci fece cerchiare la Sicilia con una matita rossa, mentre con quella verde la penisola italiana. Forse qualcuno le chiese perché, non ricordo. Quando tanti anni dopo ritrovai  quella cartina, durante una pulizia generale del garage, ricordo che restai zitta per un po' a riflettere. Rigiravo la cartina fra le mani con uno strano nodo al petto. Ovunque mettessi quella cartina, in qualsiasi posizione la piazzassi, mi sembrava che quei due cerchi fossero una sottile forma di ingiustizia. Sapevo e so bene che le intenzioni della maestra fossero diverse: voleva spiegarci la differenza tra Stato e Regione, collocarci concentricamente in due posti a cui apparteniamo, mostrarci i confini. 
Probabilmente se quel cerchio fosse stato fatto in Liguria, nel Lazio o in Calabria non mi sarei soffermata un attimo a riflettere su questa cosa. Perché sono regioni della penisola, tutte lì, vicine, danno un senso di unità soffusa.
Ma la Sicilia no, c'è il mare tutt'intorno. E non sapevo se quella condizione figurata volesse svelare qualcosa del nostro passato o presagire qualcosa del nostro futuro. 
Non sapevo se quella innata dicotomia vicinanza-distanza significasse isolamento o indipendenza.
Se fosse un premio o una condanna. Non capivo se dal mare potesse arrivare qualcuno o qualcosa di buono, oltre al vento, oltre alle conchiglie e alle imbarcazioni di passaggio. Oltre alle cose che vengono e vanno, mi chiedevo se un'isola, se la mia isola, fosse destinata a far prigionieri o ad essere prigioniera della sua condizione. Qualcuno o qualcosa sarebbe rimasto? 



Ho pensato a tutte le volte che il mare mi aveva rassicurato, durante alcuni tramonti che sembravano fiumi di porpora in fiamme, e a tutte le notti che dalla costa avevo avvistato le luci silenziose degli aerei pieni di gente che andava chissà dove. Ho rivisto lo sguardo indefinito di tutte quelle persone al molo del porto, dove stavano andando? Sembravano così sole, e invece ho capito solo più tardi che c'è differenza tra l'essere soli e il voler stare soli. 
Certe domande non puoi farle se non quando sei da solo, perché non è la risposta che conta, ma il fatto che tu sia riuscito a comporre finalmente la domanda.

Qualche anno fa, il mio prof di Filosofia Contemporanea, durante uno dei suoi tanti monologhi, disse che ogni siciliano convive con un grande dubbio, e cioè se amare o temere il mare lo circonda.



"...da lì sono arrivati i popoli che ci hanno conquistato, da lì sono arrivati i nemici e gli amici, da lì è sempre arrivato tutto."




Se arrivasse un'onda e spazzasse via tutto? Sembra galleggiare indifesa, non sai mai se sia un bastione o un castello di sabbia.




Allora un giorno raccontai di questa mia impressione ad un'amica. le mostrai la cartina, provavo a chiarire i miei pensieri con il solo risultato di confonderli ancor di più. Non riuscivo a coniugare pensieri e linguaggio. Mentre parlavo credevo di impazzire.




E lei non ha capito. O forse sì, solo che non sapevo spiegare neanche lei cosa le suscitasse quell'immagine. 




Io ci penso ancora ogni tanto.

Quando sono in un qualsiasi aeroporto, in attesa di tornare a casa, e poi sull'aereo quando dal finestrino capisco che stiamo per arrivare, intravedo i campi, i monti, la costa scompigliata, e io riconosco subito la mia terra, perché non può essere confusa con nient'altro, e vedo i fari rovinati dalla salsedine che piano piano diventano più grandi, realizzo che quella sarà sempre casa mia, che avrò sempre un'isola su cui tornare, che se un giorno il mondo dovesse crollare noi potremmo salvarci, tutta quella bellezza potrebbe ritirarsi, chiudersi in un pugno e prendere il volo. 



Spostarsi altrove.





lunedì 9 aprile 2018

Tramontare









In Sicilia, al crepuscolo, quando il cielo è striato di colori, succede che il tempo e la mente rallentano.
Il pescatore socchiude gli occhi, ritira le braccia, mentre il sole scivola verso l'acqua, oltre il golfo dove il vento si è assopito, e le case che prima occupavano con i propri colori l'orizzonte diventano scure, sagome impenetrabili.

Accendo la sigaretta e penso a quello che ho fatto e a quello che non ho fatto ma avrei dovuto fare oggi. Un delicato cielo porpora e oro si riversa sul mare e la piana, ad ogni secondo è imprevedibile. Vermiglio e violaceo, come i lividi che la vita ti fa ogni tanto. Rosso lì in fondo, come le labbra di una donna che questa mattina ha attraversato la strada. Il sole ha le sembianze di un obolo che ad ogni tramonto scambiamo con le nostre aspettative. Cosa è, cosa è stato e cosa volevamo che fosse. Una capitolazione decisa ma senza fretta.

Da qui la sensazione è che tutto si sia arrestato per fissarlo, i passanti, le macchine, le imbarcazioni, le voci, non c'è niente che possa soverchiare quell'immagine.

Qualche rondine, un gabbiano appena visibile, i volatili sopra le antenne delle case intorno. 

é in questo momento che la gente dovrebbe chiederti "che hai fatto oggi?"

Si intravede la luna da qualche parte, i lampioni sono già accesi per strada, ma non è ancora buio.

Il sole scivola dietro i pendii, è quasi sera, è quasi tardi, e qui rimane ancora qualche colore da respirare e un sogno d'afferrare. 

- Come è andata?-

Oro e vermiglio si schierano sulle linee in fondo.

- Bene, credo che sia andata bene.-

Una mano stretta di nascosto ed è già sera.


domenica 8 aprile 2018

Sul treno regionale



(Stazione di Gole dell'Alcantara, foto scattata nel Settembre 2011)



Mentre il treno arrancava sopra i binari, sbuffavo. Mi sembrava avventuroso fuggire in treno, ma dopo due ore e mezza di viaggio, due cambi in stazioni desolate e due pacchi di cracker riversati nel sedile di fianco per via di curve estreme, la mia idea di fuga in treno era stata declassata da "entusiasmante" a "Vorrei non essere così idiota, devo smetterla di guardare film".

Il fatto è che era una calda giornata di metà maggio del 2010 e io ero letteralmente impazzita. Qualcuno mi aveva davvero fatto imbestialire e il mio concetto di romanticismo tormentato aveva bussato ai miei nervi con una certa insistenza, tanto che ero uscita da scuola con un'ora di anticipo e avevo guidato la mia Nissan fino alla stazione parlando con il vocabolario di greco.

"Dove si fanno i biglietti del treno?" avevo chiesto al tizio del bar.
 Mi aveva indicato se stesso.
Bene, mi ero detta, anche in Sicilia esistono i treni, allora.

Ero diretta a Palermo, a casa di mia cugina che non sapeva niente del mio arrivo, come del resto nessun altro sulla faccia della terra.

Ve l'ho detto, ho una fervida immaginazione e sono più irrazionale delle pubblicità a tradimento sul web.

Durante il viaggio, all'ennesima chiamata dei miei genitori, decisi di risparmiare loro un infarto.

"Ma dove sei che è pronto?!"
"Sopra il treno."
"Alessandra, DOVE SEI???"

Già la voce di mio padre somigliava più a quella di un giudice che ti sta dicendo che ti darà l'ergastolo, col cavolo che vedi il sole, andrai nella cella più gelida e buia dell'inferno.

"Papà, ho bisogno di staccare."

Se ci penso oggi, rido. Ero veramente convinta di soffrire come un cane ed era tutto realmente come nelle commedie. Ma ero maggiorenne, potevo allontanarmi da casa, mi dicevo. 

Mi sentivo come le protagoniste dei miei libri preferiti, eroine del popolo, tragicamente travolte da un destino avverso. 
Nel frattempo la Sicilia scorreva al di là dei vetri del vagone, unti di qualcosa. Distese di grano, la campagna deserta... come il treno, del resto.
Al primo cambio di treno ho pensato: vuoi vedere che sbaglio e torno indietro?
Invece una simpatica vecchietta si è avvicinata e mi ha chiesto quando arrivasse la coincidenza.
A me.
Neanche sapevo che esistessero i treni qui.
Stringeva un fazzoletto colorato tra le dita rugose, tossiva in continuazione, ma aveva lo sguardo gentile. Iniziammo a commentare il tempo. Nel marciapiede di fronte dei signori piuttosto avanti con l'età avevano raggruppato qualche sedia di plastica e un tavolino che un tempo doveva essere bianco e giocavano a carte scambiandosi qualche insulto. Briscola in cinque.
-Totò, a 'bbiare u carricu, u capisti? Ciuzzu è u cumpagno, viri cà fari e ioca!"

Quando fummo sopra il treno mi disse che stava andando a trovare suo figlio a Palermo.
"Un bel ragazzo" commentò sorridendo. 
Iniziò così ad elencare tutte le prelibatezze che gli avrebbe cucinato nei giorni seguenti.
Il controllore ci chiese di mostrare i biglietti con uno sbadiglio allegro. Avvenne tutto con una calma che provai a memorizzare.
Quanto è bella la mia terra.


Nel frattempo io fantasticavo. Il treno andava lentamente, tra gallerie e campagne irrisolte, e riaccendeva in me ogni curiosità per lo spazio circostante. Dall'aereo era sempre stato diverso, perché smettevo di guardare fuori dal finestrino dopo il decollo, come se la cosa non mi riguardasse. Ma sul treno no, mi sembrava che tutto si rivolgesse a me, la mia terra, così stramba e goffa, era come se ne stessimo parlando faccia a faccia, di tutto. Agli argini erbosi delle stradine sembrava che sostasse una parte remota di me stessa che aveva già calpestato quei fiori e conosceva la strada. Quei paesaggi che si ripetevano, l'inconfondibile gobba delle colline e la lentezza delle pale eoliche che spezzavano l'aria e tagliavano il sole, era tutto così lento e irripetibile nella sua sostanza. Al prossimo viaggio la strada sarebbe stata la stessa e il viaggio sarebbe stato diverso. 
Oziavo con la fronte contro il sedile, uno strano senso di incontrollato entusiasmo, il fischio, la stazione. Scivolava come una coperta di seta. Ho avvertito caldo e freddo.

I treni non passano solo una volta, sì, è vero, spesso ritardano, ma passano ancora. Il punto è che pur essendo lo stesso treno, il viaggio sarà un altro. Prenderlo il 18 giugno o il 30 agosto cambierà qualcosa: cambieranno i vicini di posto, i passeggeri, il tempo oltre i finestrini, i colori dei campi, tu.
A volte i treni regionali sono troppo affollati e preferirai non salire. Il controllore un giorno sarà un uomo gentile, un altro un uomo scontroso, e anche questo potrebbe cambiare il tuo viaggio. Allora il punto non è prendere il treno giusto, ma prendere il treno al momento giusto.

mercoledì 4 aprile 2018

Le piazze umane










"Ni virremu a chiazza"

La piazza è un abbraccio, di pietra e balate, uno sprazzo di arte che i cornicioni dei palazzi trattengono dal cielo.

Mentre scivoli sui rivoli di vita e di voci, la musica è così vera che nessun musicista d'eccezione potrebbe ripeterla. Un labirinto di vie e finestre, ti portano lì, una piazza. Una piazza non sarà mai solo uno spazio, un posto, è un luogo di anime, di assenze presenti, c'è qualcosa per tutti: vecchi, bambini e adulti, sognatori, ubriaconi, innamorati, arrabbiati, ballerini, sognatori, malinconici e speranzosi, gente che non ha mai condiviso nulla se non quei luoghi,la stessa vernice, le stesse panchine, gli stessi lampioni, la luce, certi cieli bui, certe note. Gente che non ha mai voluto incontrarsi, eppure sullo stesso marciapiede, lo stesso coro, una birra diversa, i bicchieri che si frantumano, qualche braccio distratto, le cicche sparpagliate, l'odore del cibo, e qualche sogno indefinito oltre alle pareti.

C'è silenzio o si abbannìa.
Ci si sdraia, si balla, si canta, si scappa, ci si ritrova o ci si perde, naufraghi e comandanti, generali liberi, smarriti.

Adagi ricordi di spensieratezza, di sana follia, quanto vorrei vivere in una piazza che non porta da nessuna parte ma dove tutti possono arrivare. 

La protesta, la rivendicazione, il vagito di insensate resistenze che possono sciogliersi in una notte. Una piazza liquida, guarda dritto, guarda in alto, non fa niente se cadi, qualcuno ti raccoglie.
Quelle vite nascoste dalle piazze. Le piazze che scopri all'improvviso, i ballerini di tango quando sfiorano la notte e volteggiano sotto le chiese, la chitarra di uno sconosciuto, quando le saracinesche dei locali si abbassano e vicino la fontana qualcuno balla, quando la vita è deserta e quel vecchietto si lecca le dita per sfogliare meglio il giornale, su quella panchina sbiadita e sbilenca, quando il marciapiede è più comodo del divano e inizi a parlare di cose che poi ti sfuggono, la risata fragorosa del gruppetto lì in fondo, l'alba, se fa freddo, se fa caldo. Se cammini o se stai fermo. Quanta vita scorre nelle piazze, quanti sguardi si confondono.

Le piazze umane.

Quando vuoi conoscere una città cerca le sue piazze, stacci un giorno, o una notte, attraversale e fatti attraversare. Che la vita si annida lì.





martedì 3 aprile 2018

Il futuro nella lingua siciliana


(Copertina del libro " Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1958)



"...Cosa vi hanno detto della storia? Che è lineare, che è progresso, che è un continuum dove individuare passato, presente e futuro. Vi hanno detto questo, è scritto in tutti i testi e voi l'avete sempre pensata così. Ma voi siete siciliani, parlate almeno due lingue, una è l'italiano, e si spera che almeno quello lo conosciate bene, e la seconda è probabilmente il siciliano. Adesso, se doveste rispondere alla domanda " Cosa farete domani?" e parlaste in italiano correttamente, voi rispondereste "Domani andremo....o faremo...", insomma usereste il tempo futuro. Adesso ditemi come rispondereste in siciliano."


Un pomeriggio di tanti anni fa il mio professore tenne una lezione alquanto singolare. Eravamo pochissimi e fuori la pioggia travolgeva le strade.

Scarabocchiavo il bordo del mio quaderno senza guardarlo e ogni tanto controllavo l'orario. Altre due ore. Dannazione. 

Nessuno rispose e lui ci incalzò con uno sguardo esasperato.

Non vado molto fiera della mia pronuncia siciliana, i miei amici mi prendono costantemente in giro per questo, ma quel giorno ero così annoiata che senza dopo qualche secondo abbozzai una flebile risposta.

"Non ho sentito!" ripeté il prof almeno tre volte.

"Dumani vaiu ddrà."

E ovviamente i poveri superstiti al mio fianco ridacchiarono senza pietà. Vabbè.. 

"Esatto! Che tempo ha usato?"

Stavo giusto per disegnare un grande roditore ai margini del foglio, quando lui tuonò a tutti polmoni "Il presente! Il presente."
Ventuno anni è troppo presto per avere un infarto, pensai.
Decisi di posare la penna e di ascoltarlo perché non avremmo sicuramente parlato di Hegel e questa era già una cosa rassicurante.
"Pensate alla lingua siciliana...sapreste formulare in siciliano una frase usando il tempo futuro?... Ve lo dico io, no. Non esiste."

Non ci avevo mai pensato a questa cosa. 

"... Non siamo forse in grado di parlare del futuro o di immaginarlo? Certamente. Ma è un futuro che si confonde, che non segue la linea, si mescola al presente. Può capitare. Non va troppo lontano, no, come potrebbe? Il tempo storico non è il tempo della natura. Sono due cose totalmente differenti, ma voi non ci avete mai pensato a questa differenza o al fatto che anche tra cento anni questo presente è e sarà già, nel suo avvenire, passato. Il futuro potrebbe essere uguale al vostro passato. Nel frattempo questo edificio sarà cambiato, certamente, le strade avranno qualcosa di diverso, forse sarà tutto diverso. ma questa è la storia, a volte vuota. La sostanza, cari miei, quella non muta. Esiste un tempo ribelle, e multidimensionale, in cui una linea dritta non si curva, ma permette a piccoli filamenti di staccarsi e di creare dei cerchi. Quei cerchi possono attraversare la linea in più punti, più e più volte. Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi"

Uscii da quella lezione veramente confusa. Perché non usiamo il futuro? Perché pensiamo di non averne, o forse, perché siamo padroni del tempo?
La pioggia batteva incessantemente sull'asfalto, dei vecchi giornali si attaccavano ai marciapiedi, si spezzavano sotto il peso dell'acqua, un ticchettio, una distesa di ombrelli e i piedi degli sconosciuti tutt'intorno, eppure sembrava tutto sospeso. Mentre tornavo a casa la via Maqueda era una linea infinita verso i monti. Palermo non mi era mai sembrata così isolata e appannata. 

Qualche settimana dopo ero sommersa tra gli scaffali di una nota libreria in cerca di un libro ben preciso. 
"Mi ripete il titolo, per favore?" disse da dietro un grosso monitor posato su una specie di leggio.
"A presto, è di Michele Perriera."
"Uhm...guardi non lo abbiamo. Se guarda in quello scaffale lì dovrebbe trovare qualcosa dello stesso autore, ma non quel libro".

Io volevo quel libro a tutti i costi. Il prof lo aveva nominato durante la sua lezione e qualcosa mi diceva che avrei dovuto leggerlo. Perriera era siciliano.
Non so cosa successe esattamente, ma successe. Spulciai ogni angolo dello scaffale, davanti, dietro ogni libro, sopra, sotto, ed ad un certo punto, come nei film, un angolino blu scuro, le pagine ingiallite.
Era ancora prezzato con le lire. Diecimila lire.
Lo estrassi dallo scaffale con una strana sensazione di calore al petto. 
"Signorina, l'ho trovato! L'ho trovato!"
"Scusi?"
"Ho trovato quel libro, ma non c'è il prezzo in euro. Lo avete dimenticato forse, guardi, era qui dietro. Lo voglio comprare."

Alla fine lo pagai cinque euro, con una nota di fastidio e disappunto della signorina che non si capacitava di come fosse potuto accadere.
neanche io lo sapevo spiegare.

Cinque giorni dopo chiudevo il libro in silenzio e non sapevo se fosse inquietudine o bellezza.

In quel momento sentii di aver compreso le parole del prof.
La linearità non ammette scambi, è solo progresso. Evoluzione. Esiste il legame, ma è come le rotaie di un treno che non ripercorre mai la stessa strada e non consente ritorni. Si va dritto.

Nel nostro tempo multidimensionale invece il passato non ha una posizione di dominio e di controllo assoluto sul presente, ma è compreso in esso, tanto che il futuro non è altro che l'istante in cui il presente si risveglia e sorride timidamente, non il suo destino.

sabato 31 marzo 2018

Grazie, Peppino


  
(Discorso di Peppino, Radio Aut, Onda Pazza)



Cinisi, trenta chilometri da Palermo.


Casa Impastato, a cento passi  dalla casa del boss Badalamenti. Sono pochi metri.


Il 9 maggio del 1978 c'è silenzio e la notte è buia come sempre. Solo un po' di più.


Peppino Impastato viene colpito alla testa con un masso, viene legato alla ferrovia che collega Trapani a Palermo, nelle rotaie che dividono il comune di Cinisi da quello di Terrasini, dove aveva sede la radio che aveva fondato con altri amici coraggiosi, Radio Aut.


"Peppino si è suicidato".


Punto.


Anzi no, Peppino era un terrorista, imbranato peraltro, e voleva far saltare per aria un treno ma era finito per saltare in aria lui.


Imbranato, appunto.




Sì, Peppino probabilmente sapeva che quella sarebbe stata la sua fine, ma la paura di morire non era più forte della paura che tutto intorno a lui morisse. Devi scegliere, cosa ti fa più paura? Il coraggio è quasi una contraddizione, diceva Chesterton, esso significa un forte desiderio di vivere che prende la forma di una disponibilità a morire. Per questo non stava zitto, per non morire dentro, perché credeva che marcire fosse più doloroso che morire.


Peppino è stato ucciso perché oltre a sapere che soli cento passi lo dividevano dal marciume, lo aveva pure detto ad alta voce.


Peppino era siciliano ed era figlio di un mafioso.


Peppino era giovane e non era potente.


Peppino non era neanche un giudice, non aveva titoli, non era neanche ricco.


Peppino indossava i jeans e suonava una chitarra a corde. Scriveva poesie delicate e di giorno riversava il suo sarcasmo contro i mafiosi dagli altoparlanti della radio.


La mafia aveva paura di un ragazzo che di loro sembrava non aver paura.


Li derideva e li ridicolizzava, dava loro nomignoli imbarazzanti, li rimpiccioliva come molliche senza usare le mani.


Forse Badalamenti aveva capito quello che Peppino stava svegliando, una coscienza collettiva che era in grado di annientare l'efficacia di certi dispositivi mafiosi. Qualcosa che andava oltre l'applicazione della legge e riguardava più una resistenza spontanea e pazza.


Un'Onda Pazza.


Una decisa e incalzante lotta di coscienze, una fiamma di consapevolezza che divampava.


La mafia è sciocca.


Uccide gli uomini ma non ha alcun arma contro le idee. Ad un uomo puoi anche sparare e puoi anche fargli male e ucciderlo. Ma non puoi sparare ad un'idea. Non quando quell'idea non appartiene più ad un solo uomo, ma a cento, mille, un milione!




Peppino è stato ucciso.




Oltre ai cento passi che lo dividevano dalla banalità del male, quando la notte era così buia da togliere il fiato, che se non fosse morto avrebbe comunque creduto di esserlo. Quando non era semplice dire che la mafia esisteva e che uccideva.




Oggi, ogni 9 Maggio, una lunga coda di giovani e di adulti attraversa i binari in cui fu ucciso Peppino. Bandiere colorate, cori, canzoni, allegria, fili di commozione  e di slogan, non si tratta più di contare i passi che ci dividono, ma di percorrere insieme nuove strade  che qualcuno di molto coraggioso ci ha donato.


Si deve avere il coraggio di attraversare e travolgere quelle dell'indifferenza e del silenzio, pur senza urlare, basta che la coscienza parli.




Il corteo arriva davanti la casa di Peppino. la sua stanza è ancora lì, così come l'aveva lasciata lui prima di morire. I suoi libri, i suoi fogli sparpagliati, la chitarra, le sue foto. Ti chiedi così sia quella strana sensazione di averlo lì, tra tutti quei visi sconosciuti e accaldati, ti chiedi in quale sorriso sia finito. Dal balcone di pietra si vede perfettamente quello di casa Badalamenti.


Cemento.


A volte è un passo, a volte sono venti, più di cento, non puoi mai saperlo veramente. Ma devi comunque camminare.




Grazie Peppino.
 




Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato può essere visitata anche in giornate diverse dal 9 maggio. Per informazioni e curiosità potete consultare il sito http://www.casamemoria.it/

venerdì 30 marzo 2018

Il Viandante sul Mar



(Sant'Alessio Siculo e la Calabria, Maggio 2017)


Sant'Alessio Siculo. 
Era maggio dell'anno scorso e vivevo lì da pochissime settimane. L'estate in quelle zone iniziò presto, il caldo era così invadente da spingermi a mare ogni giorno, anche solo per un'ora. È un piccolissimo paese sulla costa ionica in cui l'acqua del mare sembra possedere una dimensione extra spaziale ed extratemporale, lontana dai colori che conosciamo e riusciamo a identificare. Mi è piaciuta sin da subito perché ogni giorno potevi percorrerla interamente a piedi, senza usare alcun mezzo. 
I primi giorni di Maggio la spiaggia era semi deserta e nessun impianto balneare occupava la battigia. Era però in funzione un piccolo chioschetto costruito su una sorta di palafitta verniciata di bianco, La Perla Nera. Spesso, mentre mi accingevo a scrivere al PC, seduta ad uno dei tavoli, sgranocchiavo secchielli di patatine e mi isolavo, se possibile, anche da quell'angolo di paradiso.
Il mare sembrava una tovaglia di seta blu.
Sì, i ciottoli  al posto della sabbia erano scomodi, ma dopo qualche giorno avevo trovato un sistema infallibile per sdraiarmi su di essi senza provare fastidiose fitte di dolore alla schiena, é sempre questione di metodo e di abitudine. Il nostro corpo e la nostra mente sono più duttili di quello che pensiamo, alla fine di tutto. 
Decidevo di sdraiarmi in direzione del sole per catturare meglio i suoi raggi e ottenere un abbronzatura impeccabile prima ancora che l'estate fosse ufficializzata. Era tutto così silenzioso e armonioso. Qualche brusio, una nota zoppa da lontano, eppure quello che avvertivo non era altro che il rumore del vento e delle onde. Il frusciare delle pagine.
 Ogni tanto oziavo in compagnia di un libro che leggevo ad alta voce, perché durante il giorno ero spesso sola e non sentire la mia voce per tutto quel tempo mi faceva soffrire. Sono logorroica, ma in quel paesino ho imparato anche ad assaporare il silenzio.
La mattina presto, dal balcone, riuscivo a scorgere perfettamente le curve della Calabria, la sua costa irregolare e le imbarcazioni  sullo stretto. Era un appuntamento piacevole, io e il vecchietto con il cane.
Tutte le mattine, alle 7.30, lo trovavo di spalle con le braccia incrociate sopra il parapetto del lungomare, lo sguardo fisso verso il mare, e il cane sonnecchiante appollaiato al suo fianco. Mi infondeva una certa forma di  rassicurazione trovarlo lì ogni mattina, anche se in quel lembo di Sicilia tutto sembrava rassicurante e piacevolmente lento. Ogni tanto lo trovavo nella stessa posizione anche la sera. Verso il tramonto. Mi chiedevo come mai fissasse con quella insistenza il mare, ma non ci parlai mai. Lo incrociai diverse volte alla pescheria del corso, anche senza il suo fedele cane, ma non sentii mai la sua voce. Mi sorrideva. 
Avevo un'idea tutta mia di quell'uomo e temevo che sentire la sua voce l'avrebbe distrutta. Lo immaginavo come un eroe solitario, un pescatore pieno di malinconia che, però, aveva sperimentato tanta felicità e, per qualche strana ragione, adesso era tormentato da qualcosa di molto triste. Delle volte quest'idea era così convincente che il solo pensiero mi intristiva. 
Ho sempre avuto una fervida immaginazione.
Una mattina, mentre stendevo i panni ai fili del balcone, mi accorsi che stava ancora lì, nonostante le 7.30 fossero passate da un pezzo. Quel giorno il tempo non era stato misericordioso e ci aveva ricordato che sì, eravamo in Sicilia, ma non era ancora estate. Era una di quelle giornate uggiose che tanto detesto, la nebbia era così fitta da coprire il mare e le falesie circostanti. Eppure lui era nella stessa postazione di sempre e probabilmente fissava un punto indefinito davanti a sé. In quel momento mi sembrò il protagonista de " Il Viandante sul Mar di Nebbia", una delle massime espressioni del romanticismo tedesco. Quell'uomo era così solitario e assorto, si stagliava contro il paesaggio di fronte. Non potevo vedere il suo sguardo ma potevo immaginare dove fosse rivolto. Contemplava le cose davanti a sé muovendosi appena, come se fosse scosso, ogni tanto, da uno spasmo di inquietudine o di meraviglia. Non aveva di certo il portamento teso e fiero del Viandante originale, ma mi sembrò addirittura più poetico. Un po' ricurvo, le gambe messe a caso, ma la testa sollevata con fermezza. 
Da allora mi sono sempre domandata se si fosse mai accorto della mia presenza durante tutte quelle mattine e sono giunta alla conclusione che sì, ne fosse cosciente, e non si voltasse per non mettermi in imbarazzo e farmi sentire una stalker.
Quando Ciccio rientrava dal lavoro e mi chiedeva così avessi fatto raccontavo di quell'appuntamento mattutino con una certa punta di entusiasmo. Non so spiegare neanche il perché trovassi interessante quel momento, probabilmente era un normale intramezzo tra le mie vecchie abitudini e quelle nuove, probabilmente perché era una compagnia silenziosa  e costante, oppure perché mi permetteva di fantasticare sulla sua vita senza interrompermi. Forse perché ci soffermiamo spesso a guardare le persone negli occhi ma tralasciamo di guardare dove vanno i loro occhi. Verso dove. Ma soprattutto con chi.
Quando ci siamo trasferiti nella casa nuova sul corso principale, a fine mese, dal balcone non riuscivo più a scorgere il mare e quella piccola abitudine che avevo costruito nei giorni precedenti fu una delle cose di cui avvertii la mancanza. Chissà che fine fanno gli sconosciuti che senza saperlo ci tengono compagnia, chissà se anche noi, qualche volta, siamo stati una compagnia inconsapevole per qualcuno, se abbiamo fatto parte di spezzoni della loro vita, se gli abbiamo permesso di fantasticare sulle nostre vite, su chi siamo. Chissà se ci hanno azzeccato.


(Il Viandante sul Mare di Sant'Alessio Siculo, Maggio 2017)

(Lungomare di Sant'Alessio Siculo, Giugno 2017)


(Sant'Alessio Siculo, Giugno 2017)
(Sant'Alessio Siculo al chiaro di luna, Maggio 2017)


(Il mare di Sant'Alessio Siculo, Maggio 2017)