(Casa di Reclusione "Ucciardone" di Palermo. Foto dal sito www.luftbildsuche.de) |
Come ogni venerdì pioveva a Palermo. All'improvviso. Un minuto prima tra le nuvole si affacciava un tiepido sole, un istante dopo era sparito, peggio dei sogni quando ti svegli di soprassalto per un rumore improvviso, che però è soltanto nella tua testa. Io me ne stavo accovacciata sulla sedia blu dell'ufficio e guardavo fuori aspettando le 17:00. Mancavano le ultime settimane e avrei concluso il tirocinio. Una casa di reclusione. Io che detesto i luoghi chiusi.
Non me lo aveva imposto nessuno, lo avevo scelto io qualche mese prima. Mi sarei dovuta laureare a breve, avevo terminato gli esami e mancava soltanto il tirocinio curricolare. Prima di scegliere, avevo trascorso tre infiniti giorni nell'ufficio tirocini dell'università.
"Potresti farlo in questa Fondazione, si occupa di temi attinenti al tuo programma di studi, porti i documenti e le carte dietro, parlate un po', magari hanno posto" mi disse esasperata la responsabile dell'ufficio. Ne avevamo passati in rassegna almeno venti ma l'idea di trascorrere 150 ore a fare fotocopie non riusciva ancora ad allettarmi.
"...oppure guarda, un tuo collega qualche anno fa ha fatto il tirocinio in questo istituto di reclusione."
"In carcere..?"
In carcere.
E alla fine scelsi proprio quello. Mi ero messa in testa che avrei dovuto fare qualcosa che normalmente non avrei fatto, qualcosa che mi annoiava profondamente, che non conoscevo ma che nel mio immaginario non avrebbe mai suscitato il mio interesse.
In realtà, volevo fare qualcosa di diverso, su cui nutrivo qualche pregiudizio, e scoprire cosa si provasse a fare un lavoro diverso da quello dei miei sogni. Perché ero convinta che sarei finita a fare un lavoro che odiavo. In un certo senso, volevo prepararmi.
Invece, nonostante qualche difficoltà e qualche altro tirocinante con cui non andavo particolarmente d'accordo, mi resi conto di non odiare affatto quel genere di ambiente lavorativo. Delle volte era cupo, ma scoprii di aver una capacità di adattamento invidiabile. Nel giro di pochi giorni ero riuscita ad instaurare un rapporto con la maggior parte del personale. La mattina presto arrivavo davanti a quel grosso cancello di ferro incavato tra le possenti mura borboniche dell'Ucciardone, firmavo, pausa al caffè. Poi in ufficio. I giorni passavano e le persone diventavano più nitide. Uno aveva la passione per le motociclette, l'altro aveva una moglie che cucinava benissimo, quell'altro ancora ascoltava musica neo melodica almeno una volta al giorno, quello invece aveva una passione per l'astrologia. A me quel posto iniziava a piacere. Quando entrammo nella zona dedicata ai reclusi con il responsabile degli educatori, scoprii quanto potessero divergere aspettative e realtà. Avevo immaginato quel posto diversamente. A tratti il cuore si stringeva nell'immaginare i figli dei detenuti giocare in quello spazio verde che l'amministrazione aveva sistemato per loro e i padri. Mi chiedevo cosa avesse fatto tutta quella gente per trovarsi lì, ognuno di loro aveva una storia, ma noi non potevamo chiedere e quindi non seppi mai perché il tipo sulla cinquantina che ogni tanto puliva gli uffici amministrativi fosse rinchiuso lì. Aveva un sorriso gentile che mostrava raramente perché il più delle volte rivolgeva il suo sguardo verso al pavimento. I suoi movimenti erano lenti e controllati. Avrà avuto dei figli, sicuramente una madre e un padre, chissà se venivano a fargli visita ogni tanto. Avevo sentito la sua voce soltanto una volta. Era il mio primo giorno e quel posto mi sembrava un labirinto. Dovevo andare a casa ma non trovavo la strada, ogni porta mi sembrava uguale. Non sapevo ancora che quell'uomo fosse un detenuto e mi ero avvicinata a lui cercando i suoi occhi timidamente.
"Scusi, sa dirmi dove posso trovare l'uscita?"
Si era fermato, aveva sollevato lentamente lo sguardo su di me e aveva improvvisato un'espressione che sul momento non ero riuscita a decifrare. Diventò di mille colori e capii di aver appena fatto una figuraccia.
"Signorina, lo chiede proprio a me?" aveva riso nervosamente " Deve attraversare quella porta e scendere, poi dovrebbe vedere il cancello".
Non ero riuscita a scusarmi, ma il mio volto, credo, espresse chiaramente il mio imbarazzo.
I giorni trascorrevano, il tempo cambiava, era Novembre e la pioggia era più frequente.
Durante la visita ai reparti dell'area di reclusione entrammo in una sezione a forma ovale molto alta, con tanti piani, tra un piano e l'altro erano presenti delle reti. Per non permettere ai detenuti di lanciarsi di sotto, intuii. L'educatore ci indicò delle insenature nella parete, alte pochi metri.
"Queste rientranze non sono casuali...Quando fu costruita la struttura, l'altezza media degli uomini era più o meno questa" disse indicando le insenature "Quando scoppiavano delle rivolte nel settore, i reclusi lanciavano oggetti alle guardie, spesso li ferivano, così ritagliarono questi piccoli ripari, le guardie si posizionavano qui per evitare di essere colpite."
Mentre uscivamo fui in grado di scorgere una donna con un sacchetto molto grande stretto in una mano, nell'altra teneva la mano di quello che doveva essere suo figlio. Entrarono.
Più tardi li vidi scambiare qualche parola nella sala colloqui con un uomo. Ogni giorno era più o meno così.
I detenuti avevano una compagnia teatrale. A dicembre ci invitarono allo spettacolo che avrebbero realizzato nel cortile antistante gli uffici. Erano evidentemente emozionati ma furono bravissimi. C'erano le loro famiglie tra il pubblico, una piccola parentesi che dava una parvenza di casa.
Nel mondo dicotomico che qualcuno costruisce dentro di sé non c'è spazio per le sfumature, è una realtà violenta: o sei così o non sei così. Non c'è spazio per gli errori, i rimorsi ed il perdono, non ci sono risalite, soltanto tanti fossi. Dovremmo lasciare i nostri occhi e la nostra mente liberi di vedere e di comprendere le cose, le persone, gli avvenimenti, scacciare via retaggi e rigidità. Metterci in discussione il più spesso possibile.
Ogni esperienza ci regala qualcosa, una sensazione, un'emozione, una lezione, anche dei ricordi che in un certo senso si trasformano in una velata nostalgia, di tanto in tanto.
Ed io sono felice di aver scelto qualcosa che normalmente avrei evitato. Ho capito che non serve a molto rimanere ancorati al proprio punto di vista e che bisogna sporcarsi gli occhi per innescare la necessità di vedere. Vedere meglio.
Il tirocinio è finito, non ho fatto fotocopie, ho bevuto molti caffè e ci vedo meglio.
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