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martedì 26 giugno 2018

Dai porti che sono come domani


(Porto di Licata, giugno 2018)




I porti sono come i domani.

Dal molo l'orizzonte ti sembra più dritto e vicino questa volta, sembra sia quello giusto, ma non sai se salperai tu o se ormeggerà lui. Alla fine qualcuno cede, cederà.

I ricchi prendono il sole dai loro yatch lucenti, cenano con un'insalata e del pesce e si vestono come barboni perché possono permettersi di sembrare poveri; le donne in bicicletta tengono con una mano la gonna ma nessuno ci fa caso, un uomo sbadiglia eternamente e scuote la testa, tutti impegnati a fare i mimi con se stessi. E tu mi dici che ho ancora il costume bagnato e la sabbia sui piedi.

Non fa freddo ma la gente si abbraccia lo stesso.

I lampioni sono accesi ma non è ancora sera, le luci sono tante o forse troppe, si vede una stella, si vede la luna, e non possiamo contare i sorrisi che scavalcano i visi dei bambini quando mangiano il gelato già sciolto.

Ma perché ti sei vestita di viola, questa mattina mi sono svegliato e ti ho immaginata con il vestito rosso.
E mangi un cannolo di ricotta che sembra una nuvola quando lo sollevi per morderlo.

Sopra quel gommone ci sono ancora i bambini che giocano a Capitan Uncino e Peter Pan e cambiano la storia continuamente. Non devi dire così, devi dire questo, devi fare questo, tu sei cattivo ed io sono buono, tu sei grande ed io sono piccolo, no anzi sei piccolo anche tu, ma resta qui che il gioco non è ancora finito!

Il cielo striato di rosa sembra un fascio di braccia avvinghiate prima di dormire, quelle che poi si slegano mentre dormi davvero, la tua mano è troppo grande per la mia, mentre guardi il faro dai tavoli del Caffè sembra che tu stia salpando, come il mio domani, ed il tuo, e quello della gente intorno a noi, e parli di cose che già ho scordato.

Ma t'immagini vivere nelle isole piccole di cui nessuno sa nulla? Senza i porti, senza i moli, senza le gonne delle donne e gli yatch dei ricchi, senza il gelato e Capitan Uncino, t'immagini vivere circondato dagli orizzonti? 

Il sole scivola sull'acqua e anche l'orizzonte sparisce.

Mi dici che se voglio ci possiamo andare nelle isole piccole piccole e dimenticate da tutti, ma almeno il cannolo con la ricotta lo vuoi.

(Il molo di Licata, giugno 2018)





giovedì 21 giugno 2018

L'uovo di struzzo






(La camapgna a Gela, maggio 2018)







- Papà, papààà! Ma questi uccelli perché non volano?

-Sono troppo pesanti, amore mio, e le ali sono di piuma leggera.-

-Ma se hanno le ali grandissime! Forse la loro mamma non gli ha insegnato a volare o si sono fatti male.-

Avevo sette anni e due struzzi giganti mi scrutavano minacciosamente da dietro una robusta rete metallica. Mio padre aveva da poco comprato degli struzzi per creare una sorta di allevamento. Erano quattro: due femmine e due maschi. Stavano in lunghi e larghi corridoi delimitati da reti altissime e quando correvano sembrava che una grossa moto avesse preso la rincorsa per saltare la collina in fondo. Non erano belli, avevano il collo troppo lungo e il viso troppo piccolo per appartenere a quel corpo così possente. Tuttavia, nutrivo una sorta di simpatia per loro, specialmente quando varcando il cancello li trovavo con il collo piantato nel terreno. Sognavo di salire sul dorso di uno di loro e correre insieme a loro, ma non sapevo ancora che uno struzzo è in grado di sventrare un uomo in pochi minuti e che attaccano anche i leoni.
Per me erano soltanto degli uccelli goffi che si erano scordati il trucco per volare. Mi ero messa in testa che avrei dovuto aiutarli. Così ogni tanto mi piazzavano davanti una delle reti e li incitavo, muovendo le braccia su e giù.

-Dovete fare così!-

Il più delle volte rimanevano a fissarmi inarcando il collo e formando una U sbilenca.

Credevo che fossero stupidi.

- Quando correte, dovete aprire le ali così e poi volate, dai!-

La risposta era trapiantare il collo sottoterra.

Un giorno mio padre tornò a casa con un grosso uovo, grande quanto una televisione da 18 pollici. Era un uovo di struzzo.

Per me, che a quell'età avevo una serie di amici immaginari di diversa natura (elfi, pirati buoni, alieni e animali), quell'uovo rappresentava un'occasione: gli avrei spiegato come volare.

Così lo presi fra le braccia e iniziai a parlarci fino allo sfinimento, così tanto che credo che si suicidò dentro il guscio. Lo tenevo dentro uno zainetto di pezza e per circa due giorni ignorai ogni essere vivente sulla faccia della terra e inizia ad attuare il mio piano.
Una mattina, prima di riportarlo all'allevamento, raccolsi dalla sedia lo zaino con i libri della scuola e inforcai in un braccio lo zainetto di pezza.

Arrivai in classe con un'insolita allegria mattutina e mostrai compiaciuta ai miei compagni di classe il mio nuovo amico.
La maestra non sapeva bene come affrontare quella presenza "ingombrante" in classe. Erano tutti estasiati da "Struzzy".

Credo che temesse la frittata sui banchi di scuola, così mi chiese se potesse tenerlo lei alla cattedra per "poterlo far vedere a tutti".

Non ricordo come, quando, né perché, ma qualche settimana dopo, durante una giornata primaverile soleggiata e calda, tutta la classe, con genitori e maestre, raggiunse l'allevamento con panini e bibite.

Il verde sterminato, il giallo del "lavure" (il grano), gli aranceti, i limoni, ho solo tanti ricordi confusi di quel giorno. Ma io lo so che è stato un giorno felice.
Ho mostrato a quei grandi uccelli che non sapevano volare a tuti i miei compagni, la mamma e il papà di Struzzy (che era già tornato al suo posto), e anche gli altri bambini concordarono con me sul fatto che fosse davvero da scemi avere le ali e non volare.

Allora era difficile comprenderne il perchè, non adesso.

Qualche anno fa ho tenuto un laboratorio d'inglese per bambini, durante un campus. Stavamo facendo un gioco per memorizzare i nomi degli animali,i bambini erano troppi e quindi, oltre agli animali "famosi", avevo dovuto trovarne altri meno noti da affibbiargli. Ad un bambino affidai il compito dello struzzo.

- Ma maestra, io non voglio fare lo struzzo!- protestò mettendo su una smorfia di disgusto.

Risi, immaginavo già questa risposta.

-E perché? Gli struzzi sono gli uccelli più veloci del mondo! Sono alti, forti e possono andare con la testa sottoterra!-

-Sì, ma non volano e sono brutti!- piagnucolò.

Iniziò un dibattito sugli struzzi che andò avanti per tantissimo tempo: alcuni bambini sostenevano che gli struzzi non volassero per prendere in giro gli altri animali, altri che volassero solo di notte, quando tutti dormivano, altri ancora che gli struzzi non volavano perché una strega cattiva aveva fatto loro un incantesimo per punirli perché troppo grandi e pericolosi, finché ad un certo punto Elisa, una bambina molto timida  si arrabbiò con loro e disse che non era vero niente, che gli struzzi sapevano volare.

-... Solo che hanno paura di cadere e farsi male. Si sentono al sicuro per terra, infatti hanno imparato a correre come la luce.-

Non è forse quello che fanno molti di noi?

Rimasi a guardarli per un po' mentre si confrontavano sulle ali degli struzzi.

Alla fine tutti volevano essere un "ostrich", aspettare la notte per volare, sconfiggere la strega cattiva dell'incantesimo e far passare agli struzzi la paura di volare.

C'è sempre un modo per farlo, anche senza ali, a volte basta semplicemente dimenticare cosa sappiamo di una cosa e immaginarla migliore, diversa.

Basta tornare un pò bambini per saper volare senza futili e sciocche paure.



martedì 19 giugno 2018

Ucciardone






(Casa di Reclusione "Ucciardone" di Palermo. Foto dal sito www.luftbildsuche.de)




Come ogni venerdì pioveva a Palermo. All'improvviso. Un minuto prima tra le nuvole si affacciava un tiepido sole, un istante dopo era sparito, peggio dei sogni quando ti svegli di soprassalto per un rumore improvviso, che però è soltanto nella tua testa. Io me ne stavo accovacciata sulla sedia blu dell'ufficio e guardavo fuori aspettando le 17:00. Mancavano le ultime settimane e avrei concluso il tirocinio. Una casa di reclusione. Io che detesto i luoghi chiusi.
Non me lo aveva imposto nessuno, lo avevo scelto io qualche mese prima. Mi sarei dovuta laureare a breve, avevo terminato gli esami e mancava soltanto il tirocinio curricolare. Prima di scegliere, avevo trascorso tre infiniti giorni nell'ufficio tirocini dell'università.

"Potresti farlo in questa Fondazione, si occupa di temi attinenti al tuo programma di studi, porti i documenti e le carte dietro, parlate un po', magari hanno posto" mi disse esasperata la responsabile dell'ufficio. Ne avevamo passati in rassegna almeno venti ma l'idea di trascorrere 150 ore a fare fotocopie non riusciva ancora ad allettarmi.

"...oppure guarda, un tuo collega qualche anno fa ha fatto il tirocinio in questo istituto di reclusione."

"In carcere..?"

In carcere.

E alla fine scelsi proprio quello. Mi ero messa in testa che avrei dovuto fare qualcosa che normalmente non avrei fatto, qualcosa che mi annoiava profondamente, che non conoscevo ma che nel mio immaginario non avrebbe mai suscitato il mio interesse.
In realtà, volevo fare qualcosa di diverso, su cui nutrivo qualche pregiudizio, e scoprire cosa si provasse a fare un lavoro diverso da quello dei miei sogni. Perché ero convinta che sarei finita a fare un lavoro che odiavo. In un certo senso, volevo prepararmi.

Invece, nonostante qualche difficoltà e qualche altro tirocinante con cui non andavo particolarmente d'accordo, mi resi conto di non odiare affatto quel genere di ambiente lavorativo.  Delle volte era cupo, ma scoprii di aver una capacità di adattamento invidiabile. Nel giro di pochi giorni ero riuscita ad instaurare un rapporto con la maggior parte del personale. La mattina presto arrivavo davanti a quel grosso cancello di ferro incavato tra le possenti mura borboniche dell'Ucciardone, firmavo, pausa al caffè. Poi in ufficio. I giorni passavano e le persone diventavano più nitide. Uno aveva la passione per le motociclette, l'altro aveva una moglie che cucinava benissimo, quell'altro ancora ascoltava musica neo melodica almeno una volta al giorno, quello invece aveva una passione per l'astrologia. A me quel posto iniziava a piacere. Quando entrammo nella zona dedicata ai reclusi con il responsabile degli educatori, scoprii quanto potessero divergere aspettative e realtà. Avevo immaginato quel posto diversamente. A tratti il cuore si stringeva nell'immaginare i figli dei detenuti giocare in quello spazio verde che l'amministrazione aveva sistemato per loro e i padri. Mi chiedevo cosa avesse fatto tutta quella gente per trovarsi lì, ognuno di loro aveva una storia, ma noi non potevamo chiedere e quindi non seppi mai perché il tipo sulla cinquantina che ogni tanto puliva gli uffici amministrativi fosse rinchiuso lì. Aveva un sorriso gentile che mostrava raramente perché il più delle volte rivolgeva il suo sguardo verso al pavimento. I suoi movimenti erano lenti e controllati. Avrà avuto dei figli, sicuramente una madre e un padre, chissà se venivano a fargli visita ogni tanto. Avevo sentito la sua voce soltanto una volta. Era il mio primo giorno e quel posto mi sembrava un labirinto. Dovevo andare a casa ma non trovavo la strada, ogni porta mi sembrava uguale. Non sapevo ancora che quell'uomo fosse un detenuto e mi ero avvicinata a lui cercando i suoi occhi timidamente.

"Scusi, sa dirmi dove posso trovare l'uscita?"

Si era fermato, aveva sollevato lentamente lo sguardo su di me e aveva improvvisato un'espressione che sul momento non ero riuscita a decifrare. Diventò di mille colori e capii di aver appena fatto una figuraccia.

"Signorina, lo chiede proprio a me?" aveva riso nervosamente " Deve attraversare quella porta e scendere, poi dovrebbe vedere il cancello".

Non ero riuscita a scusarmi, ma il mio volto, credo, espresse chiaramente il mio imbarazzo.

I giorni trascorrevano, il tempo cambiava, era Novembre e la pioggia era più frequente.

Durante la visita ai reparti dell'area di reclusione entrammo in una sezione a forma ovale molto alta, con tanti piani, tra un piano e l'altro erano presenti delle reti. Per non permettere ai detenuti di lanciarsi di sotto, intuii. L'educatore ci indicò delle insenature nella parete, alte pochi metri.

"Queste rientranze non sono casuali...Quando fu costruita la struttura, l'altezza media degli uomini era più o meno questa" disse indicando le insenature "Quando scoppiavano delle rivolte nel settore, i reclusi lanciavano oggetti alle guardie, spesso li ferivano, così ritagliarono questi piccoli ripari, le guardie si posizionavano qui per evitare di essere colpite."

Mentre uscivamo fui in grado di scorgere una donna con un sacchetto molto grande stretto in una mano, nell'altra teneva la mano di quello che doveva essere suo figlio. Entrarono.
Più tardi li vidi scambiare qualche parola nella sala colloqui con un uomo. Ogni giorno era più o meno così.
 I detenuti avevano una compagnia teatrale. A dicembre ci invitarono allo spettacolo che avrebbero realizzato nel cortile antistante gli uffici. Erano evidentemente emozionati ma furono bravissimi. C'erano le loro famiglie tra il pubblico, una piccola parentesi che dava una parvenza di casa.
Nel mondo dicotomico che qualcuno costruisce dentro di sé non c'è spazio per le sfumature, è una realtà violenta: o sei così o non sei così. Non c'è spazio per gli errori, i rimorsi ed il perdono, non ci sono risalite, soltanto tanti fossi. Dovremmo lasciare i nostri occhi e la nostra mente liberi di vedere e di comprendere le cose, le persone, gli avvenimenti, scacciare via retaggi e rigidità. Metterci in discussione il più spesso possibile.

Ogni esperienza ci regala qualcosa, una sensazione, un'emozione, una lezione, anche dei ricordi che in un certo senso si trasformano in una velata nostalgia, di tanto in tanto.
Ed io sono felice di aver scelto qualcosa che normalmente avrei evitato. Ho capito che non serve a molto rimanere ancorati al proprio punto di vista e che bisogna sporcarsi gli occhi per innescare la necessità di vedere. Vedere meglio.
Il tirocinio è finito, non ho fatto fotocopie, ho bevuto molti caffè e ci vedo meglio.

giovedì 14 giugno 2018

Arrivederci Ahmed





(La Vucciria, Piazza Caracciolo, Palermo)





Quella sera l'afa era insopportabile a Palermo e noi camminavamo con passi sbilanciati e rumorosi tra le viuzze del centro. Le balate erano ancora calde nonostante il sole fosse tramontato da molte ore, e la gente sventolava fogli di carta e ventagli per dare apparente sollievo al viso. I locali erano zeppi di gente che mangiava, beveva e discuteva facendo un gran baccano. Era giugno e gli esami non erano ancora finiti, però da qualche parte ci era rimasta un pò di energia per camminare dopo il tramonto e una disperata voglia di musica e allegria. Eravamo un bel gruppetto e nessuno di noi sembrava occupato da altri pensieri, eravamo lì pienamente. 
Mi ricordo di te Ahmed. Credo fosse quello il tuo nome. Eri così esile da confonderti tra la folla e i lampioni, mentre tra le mani stringevi un sacchetto di plastica rovinata e le tue spalle erano ricurve sotto il peso di uno zaino che aveva tutta l'aria di pesare più di te. I tuoi occhi guizzavano in quel trambusto alla ricerca di quelli delle altre persone. Ti abbiamo visto in pochi, probabilmente gli occhi di tanti ti hanno attraversato, ma solo qualcuno è riuscito a vederti veramente. Succede alle persone distratte o a quelle troppo concentrate su altro. Ti ho visto esattamente mentre prendevi posto ai bordi del marciapiede di pietra bollente e con una mano  ti toccavi il collo ripetutamente. Ti ho riconosciuto immediatamente, perché è quello che faccio io ogni volta che provo disagio e non so cosa fare. Torturo con le dita la pelle del collo e piego leggermente la testa. E mentre pensavo a questa cosa l'hai rifatto: hai piegato anche tu la testa. Ad un certo punto ci hai visto anche tu, a quel muretto di fronte a te, tanti ragazzi sicuramente più grandi di te, con la birra, le sigarette, i telefonini, intenti a scattare foto e a parlare a voce alta. Non hai incrociato il mio sguardo subito, perché sei rimasto ancora un altro pò con te stesso, a pensare a chissà cosa. Ti sei avvicinato con un sorriso che hai tirato su all'improvviso. Non capivo quanto stessi fingendo e ho aspettato che tu ci raggiungessi.
Ci hai chiesto se volessimo comprare delle cover per il telefono e noi non ti abbiamo risposto subito perché avevi al collo una collana bellissima di legno e Chiara ti aveva chiesto se ne avessi un'altra da venderci. Dicesti no, che quello era un regalo e che però ne avevi delle altre.
Mentre ci mostravi le tue cose ti sei seduto nel muretto vicino a noi e la tua allegria ci ha incuriositi. Eri piccolo allora, Ahmed, tredici anni, mentre adesso avrai l'età per guidare una macchina. Allora i tuoi polsi erano così sottili da sembrare delle spighe e la tua voce non era ancora quella degli adulti. Ci hai raccontato della tua fidanzatina che non vedevi da tanto tempo e di come tua nonna vestisse stravagante. Di quanto ti mancassero i tuoi amichetti e le strade della città dove hai vissuto da piccolo, però fa niente, Palermo ti piaceva tanto, dicevi, la gente era gentile con te. Alcuni un pò meno.
Ci hai parlato della scuola che frequentavi a Ballarò, dei tuoi compagni di classe e di quanto avessi sonno. Perché tu dopo la scuola e i compiti uscivi a vendere le cover dei telefonini. Lo dicevi senza cercare di commuoverci, con un sorriso che occupava tutto il tuo volto e metteva in evidenza la tua magrezza. Senza che tu potessi vedermi ho sfilato la cover dal mio telefono e ti ho chiesto di mostrarmene qualcuna. Ne ho scelta una bellissima, intagliata e colorata, e subito dopo mi hai regalato un ciondolo di plastica giallo e blu. Nel frattempo anche gli altri avevano comprato qualcosa, nulla di che, ma la tua spontaneità era così bella che sono certa la percepirono tutti. Ti hanno chiesto di dove fossi, e tu ci hai detto che non sapevi rispondere perché eri andato in così tanti posti che non sapevi scegliere.

Sei andato via con il sacchetto poco più leggero.

Ahmed, ti ho incontrato poche volte ancora e poi sei sparito, o forse sei cresciuto e non somigli più a quel ragazzino gracile e spigoloso, forse mi sei passato vicino altre volte e neanche tu mi hai riconosciuta, magari ti sei scordato, e non te ne faccio una colpa. Forse sei andato in un altro posto e hai recuperato il sonno perso in quegli anni, non saprei, ma avrei voluto dirti che anche io mi sono trovata tante volte in un angolo a toccarmi il collo e a fissare il pavimento. Tante volte. E se crescendo non l'hai ancora imparato, imparerai comunque, come me, che in tutto quel casino di gente qualcuno prima o poi ti vede. Potrà non diventare tuo amico, potrà approfittarsi della tua fragilità momentanea, potrà sorriderti complice, o potrà semplicemente rimanere dov'è. E tu potresti non accorgerti di tutte queste risposte, ma non sarai mai invisibile del tutto. 
Imparerai o lo hai già fatto, che tutti stiamo salendo una scala, che qualcuno nasce nel gradino più basso, qualcuno al centro, qualche altro ancora quasi in cima, e che questo non conta, perché siamo tutti in grado di risalirla, e che chi sta in fondo si stancherà tanto, ma avrà visto e imparato altrettanto.

Imparerai alla fine, che le cose a cui siamo più legati non sono in grado di trattenerci in alcun posto, perché non sono cose e non pesano niente. 


Arrivederci Ahmed.





sabato 9 giugno 2018

Isola



(Il Golfo di Palermo dal finestrino. Novembre 2016)



Vivere in un'isola, per quanto grande possa essere, ha i suoi pro e i suoi contro.

 Ho scoperto di vivere in un'isola in prima elementare, durante l'ora di Geografia. La maestra ci fece cerchiare la Sicilia con una matita rossa, mentre con quella verde la penisola italiana. Forse qualcuno le chiese perché, non ricordo. Quando tanti anni dopo ritrovai  quella cartina, durante una pulizia generale del garage, ricordo che restai zitta per un po' a riflettere. Rigiravo la cartina fra le mani con uno strano nodo al petto. Ovunque mettessi quella cartina, in qualsiasi posizione la piazzassi, mi sembrava che quei due cerchi fossero una sottile forma di ingiustizia. Sapevo e so bene che le intenzioni della maestra fossero diverse: voleva spiegarci la differenza tra Stato e Regione, collocarci concentricamente in due posti a cui apparteniamo, mostrarci i confini. 
Probabilmente se quel cerchio fosse stato fatto in Liguria, nel Lazio o in Calabria non mi sarei soffermata un attimo a riflettere su questa cosa. Perché sono regioni della penisola, tutte lì, vicine, danno un senso di unità soffusa.
Ma la Sicilia no, c'è il mare tutt'intorno. E non sapevo se quella condizione figurata volesse svelare qualcosa del nostro passato o presagire qualcosa del nostro futuro. 
Non sapevo se quella innata dicotomia vicinanza-distanza significasse isolamento o indipendenza.
Se fosse un premio o una condanna. Non capivo se dal mare potesse arrivare qualcuno o qualcosa di buono, oltre al vento, oltre alle conchiglie e alle imbarcazioni di passaggio. Oltre alle cose che vengono e vanno, mi chiedevo se un'isola, se la mia isola, fosse destinata a far prigionieri o ad essere prigioniera della sua condizione. Qualcuno o qualcosa sarebbe rimasto? 



Ho pensato a tutte le volte che il mare mi aveva rassicurato, durante alcuni tramonti che sembravano fiumi di porpora in fiamme, e a tutte le notti che dalla costa avevo avvistato le luci silenziose degli aerei pieni di gente che andava chissà dove. Ho rivisto lo sguardo indefinito di tutte quelle persone al molo del porto, dove stavano andando? Sembravano così sole, e invece ho capito solo più tardi che c'è differenza tra l'essere soli e il voler stare soli. 
Certe domande non puoi farle se non quando sei da solo, perché non è la risposta che conta, ma il fatto che tu sia riuscito a comporre finalmente la domanda.

Qualche anno fa, il mio prof di Filosofia Contemporanea, durante uno dei suoi tanti monologhi, disse che ogni siciliano convive con un grande dubbio, e cioè se amare o temere il mare lo circonda.



"...da lì sono arrivati i popoli che ci hanno conquistato, da lì sono arrivati i nemici e gli amici, da lì è sempre arrivato tutto."




Se arrivasse un'onda e spazzasse via tutto? Sembra galleggiare indifesa, non sai mai se sia un bastione o un castello di sabbia.




Allora un giorno raccontai di questa mia impressione ad un'amica. le mostrai la cartina, provavo a chiarire i miei pensieri con il solo risultato di confonderli ancor di più. Non riuscivo a coniugare pensieri e linguaggio. Mentre parlavo credevo di impazzire.




E lei non ha capito. O forse sì, solo che non sapevo spiegare neanche lei cosa le suscitasse quell'immagine. 




Io ci penso ancora ogni tanto.

Quando sono in un qualsiasi aeroporto, in attesa di tornare a casa, e poi sull'aereo quando dal finestrino capisco che stiamo per arrivare, intravedo i campi, i monti, la costa scompigliata, e io riconosco subito la mia terra, perché non può essere confusa con nient'altro, e vedo i fari rovinati dalla salsedine che piano piano diventano più grandi, realizzo che quella sarà sempre casa mia, che avrò sempre un'isola su cui tornare, che se un giorno il mondo dovesse crollare noi potremmo salvarci, tutta quella bellezza potrebbe ritirarsi, chiudersi in un pugno e prendere il volo. 



Spostarsi altrove.